Nel tramonto, forse definitivo, della ‘civiltà liberale’, il termine liberale ieri sinonimo di conservatorismo oggi è un distintivo che tutti portano all’occhiello, anche i chierici che scrivono su «La Stampa», su «Repubblica», sul «Fatto quotidiano», su «Domani». Ormai è rimasto solo «Il Manifesto» a dirsi «quotidiano comunista». Chapeau! Tanti anni fa un barone della Facoltà di Lettere e Filosofia di Genova si mostrò riluttante nel conferirmi l’incarico di Storia delle dottrine politiche in quanto avevo fama di essere un ‘liberale’ (anche se militavo nel PSI, nell’estrema destra, of course). Il mio sostenitore, per rassicurarlo, dovette dirgli che ero allievo di Norberto Bobbio (una mezza verità) e solo allora ebbi il nulla osta del barone – un noto antichista, intellettuale militante «regolarmente iscritto al PCI», come avrebbe detto Woody Allen. Oggi, parafrasando Croce, potremmo sottoscrivere all’unanimità un manifesto dal titolo Perché non possiamo non dirci liberali, rimuovendo quanto ripeteva spesso il compianto Piero Ostellino che il liberalismo è una teorica delle libertà – sempre più precarie – non è una teorica dei diritti che oggi spuntano come funghi dopo un temporale estivo.
Tra le libertà a rischio, è la libertà intellettuale quella che dovrebbe maggiormente preoccuparci. La cancel culture ne restringe sempre di più l’area al punto che ogni opinione, dissenziente dal politicamente corretto, viene subito criminalizzata. Sono lontani i tempi in cui Marco Pannella assumeva la direzione di «Lotta continua» non perché ne condividesse la linea politica ma per mantenere in vita un periodico reietto. Pannella era un autentico liberale che poteva presentarsi ai congressi della sinistra più radicale come a quelli del Movimento Sociale: il diritto di ciascuno a dire la sua per lui era assoluto, indisponibile, sacro.
La Repubblica delle Lettere viene stravolta quando non è più la libertà della ricerca la sua stella polare ma il progetto cristiano-illuministico – e comune alle diverse species di totalitarismo – volto a rendere gli uomini migliori se non a guarirli dal ‘peccato originale’. In una società liberale, la scuola non deve ‘produrre’ buoni cittadini ma cittadini informati che solo in quanto tali possono essere buoni cittadini e non masse plaudenti sotto i balconi di Palazzo Venezia o sotto gli spalti del Cremlino. Queste malinconiche considerazioni mi sono venute in mente leggendo il programma del Convegno in due giornate (11 e 12 settembre) promosso dalla Fondazione Treccani-Cultura sul tema: «11 settembre 1973: il colpo di Stato in Cile. La fine di una storia di democrazia e il lavoro per costruirla». La Treccani è il Tempio maggiore della cultura nazionale. La istituì Giovanni Gentile, attirandosi le critiche dei fascisti giacché, alla grande opera dell’Enciclopedia Italiana, aveva invitato a collaborare anche ebrei come Oskar Kristeller e Rodolfo Mondolfo. In una sede così prestigiosa dovrebbero tenersi solo incontri di studio e di approfondimento e, invece, leggendo la locandina ci si accorge che la storia c’entra poco e, come lamentava lo storico Giovanni Belardelli, al suo posto troviamo celebrazioni e testimonianze. Nei saluti istituzionali e nelle relazioni, infatti, nulla lascia intravedere che si affacci, da qualche parte, un ripensamento delle drammatiche giornate cilene, qualcosa che faccia capire il successo del Generale Augusto Pinochet, che certo poteva contare sull’appoggio di Washington.
Si può essere sicuri, quindi, che nessuno ricorderà le analisi del golpe militare fatte da autentici liberali come Arturo Valenzuela o Jean François Revel, entrambi fieramente avversi al Francisco Franco di Santiago. Valenzuela, autore di un saggio illuminante, Il crollo della democrazia in Cile – pubblicato in italiano come 4°Quaderno di Biblioteca della libertà del Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi, 1977 – spiegò assai bene gli errori imperdonabili di Salvador Allende il cui disegno di fare del Cile una seconda Cuba gli appariva non meno ripugnante del neofranchismo di Pinochet. All’indomani dell’instaurazione della dittatura, coerentemente, scelse la via dell’esilio (negli Stati Uniti dove fece una brillante carriera accademica e politica). Inutile dire che il suo libro non interessò quasi nessuno, non venne mai citato, non diede origine a nessun dibattito serio, sia pure per confutarne le tesi.
Jean-François Revel, assieme a Raymond Aron, a Bertrand de Jouvenel, a François Furet uno dei grandi saggi del liberalismo francese del Novecento, dedicò alle vicende cilene il corposo XII capitolo de La tentazione totalitaria (Ed. Rizzoli 1976) e vi tornò nel libro Come finiscono le democrazie (Ed. Rizzoli 1983). Anche qui la congiura del silenzio scattò implacabile: Revel era un pericoloso ‘revisionista’, della razza di Renzo De Felice, e pertanto risultava indigesto a una cultura dominata da quello che con non felice neologismo definii il «gramsciazionismo». Una decina di anni dopo l’uscita di Come finiscono le democrazie Alessandro Galante-Garrone avrebbe pubblicato Il mite giacobino (Ed. Donzelli) che finiva con un inno a Salvadore Allende e al Cile che non si arrende in cui naturalmente non circolava neppure un soffio di quel crudo realismo che avrebbe indotto, proprio in seguito ai fatti di Santiago, Enrico Berlinguer a pensare ad ampie intese di governo. In effetti, scriveva Revel nel saggio dell’83, «al momento del colpo di Stato militare, Allende, il quale si era già reso colpevole di innumerevoli illegalità e aveva contro di sé la maggioranza dei cileni, non poteva più mantenere il potere se non sospendendo la Costituzione e passando a un regime di tipo castrista, verso la cui realizzazione aveva già fatto numerosi passi» anche su consiglio dell’ospite Fidel Castro al quale si dovette il primato della più lunga visita di un capo di Stato in un paese amico (un mese!).
Nel Convegno alla Treccani si sentiranno diverse testimonianze di congiunti di Salvador Allende – al quale peraltro va riconosciuta una morte dignitosa (e certo più dignitosa del nostro duce), relazioni sui rapporti italo-cileni e persino una lectio di Giuliano Amato su Allende e il socialismo, ma nulla sulle cause sociali, economiche e culturali che hanno portato al tragico settembre 1973. Uno storico dell’America Latina, come Loris Zanatta o un economista come Nicola Rossi, nessuno dei due di destra, non si trovano nella lista dei relatori e pour cause! Zanatta sarebbe venuto a dire – v. il suo articolo La memoria sul Cile di Allende è divisa, Il Mulino 8 gennaio 2019 – che Allende «in appena tre anni ridusse il Paese al collasso. So che si invoca il boicottaggio, che si chiama in causa Nixon: quel che si vuole, ma la sostanza non cambia; fu una politica economica sconsiderata e demagogica. Più che la paura del comunismo furono i mercati vuoti a spingere tanti cileni a plaudire al golpe. Piaccia o no, la ragione fu la stessa che ha prodotto gli stessi effetti altrove, in contesti molto diversi ma tra membri della stessa famiglia ideologica: peronismo, castrismo, sandinismo, chavismo, tutti sono prima o poi finiti allo stesso modo; volevano ‘distribuire la ricchezza’, hanno spalmato la miseria e reciso le fonti della prosperità. Per non parlare delle istituzioni democratiche».
Ormai i nostri convegni di studio sono ‘stile ANPI’: si fanno per rievocare gli orrori, per sentire i testimoni, per indottrinare gli ascoltatori o per rinforzare i loro paraocchi, per scandire il minaccioso no pasaran e magari per cantare Bella ciao alla fine dei lavori. Che tristezza, lasciatemelo dire!
Giuseppe Ieraci dice
D’accordo su tutto, Allende era un economista inetto, uno che aveva sicuramente portato il Cile al collasso, uno che non aveva capito molto di come andavano le cose dalle sue parti. Era anche un ingenuo, in base alla costituzione cilena del 1925 – al momento vigente – Allende (che alle elezioni del 1970 ha preso solo il 36,3% dei voti e non raggiuge il 50% richiesto) infatti viene eletto dal legislativo per accordo “pacificante”, il suo oppositore liberal-conservatore J. Alessandri avendo ottenuto il 34,9%. Insomma, Allende non si accorge che al potere c’è finito “per grazia (dai liberal-conservatori) ricevuta”. Va bene, ma allora significata che i militari tutto sommato hanno fatto bene a bombardare il Palacio de La Moneda?
Democrazia è democrazia: se al potere – nel rispetto delle procedure – c’è andato uno “scemo” – per colpa del popolo e del legislatore -, beh bisogna tenerselo, mi dispiace, e nulla giustifica o allevia la responsabilità di chi ha distrutto quelle “sacre” procedure.
Sennò sapete quanti su “scemi” – nostrani o meno – saremmo tentati di lanciare granate?
salvo dice
Perfettamente d’accordo col Prof. Ieraci: Salvador Allende non è stato politico particolarmente preparato né particolarmente avveduto.
Ma bombardare La Moneda non è giustificato, e mai potrà esserlo. Per nessun motivo.