Secondo Francesco De Gregori, un calciatore non si giudica da un calcio di rigore. Un Presidente si giudica dalla sua elezione? Il punto è capire se l’elezione diretta ‘popolare’ del Presidente, di questo stiamo parlando, incida sulle relazioni istituzionali. Oggi, all’indomani delle votazioni per il settennato 2022-2029, ha un senso discuterne, visto che qualcuno sbrigativamente l’ha suggerita per l’Italia, in ragione della trasformazione del suo ruolo nella prassi politica degli ultimi decenni. (Di questo ci siamo già occupati in Paradoxaforum, De facto o de jure, siamo una repubblica semipresidenziale? 25.11.2021).
L’elezione ‘popolare’ del Presidente crea un doppio circuito, della rappresentanza che lega elettorato e sottosistema Parlamento-Governo e diretto tra il ‘Capo’ e il ‘suo’ popolo. Ma questo non chiude il discorso, perché Presidente, Governo e Parlamento devono usare i poteri costituzionalmente previsti, rispetto ai quali la fonte di legittimazione è relativamente indifferente. Ci sono dei presidenti elettivi (quelli irlandese, islandese, austriaco e sloveno) dei quali nessuno si accorge, tanto limitati sono i poteri accordatigli, e ci sono invece dei presidenti elettivi molto influenti e decisivi per la ragione opposta (quelli francese e romeno, per esempio, per tacere di tutti i Presidenti-Führer della galassia post-comunista dell’Est).
Nelle varianti francese ed europee del presidenzialismo, quelle chiamate semi-presidenzialismo, c’è sì un Presidente elettivo ma il Governo deve ottenere il sostegno – la fiducia – del Parlamento. Per districarsi e disporre di una mappa cognitiva, suggerisco al lettore di tracciare mentalmente due ‘linee’, una che individui i rapporti tra il Presidente e il Governo e l’altra i rapporti tra il Presidente e il Parlamento. Su ciascuna linea, come fosse un termometro, misuriamo la forza del Presidente rispetto alle sue controparti, il Governo e il Parlamento, in base ai poteri che gli sono attribuiti dalla Costituzione. Più poteri ha, più si alza la colonnina del termometro verso l’alto (Presidente forte), viceversa meno ne ha, più resta schiacciata in basso (Presidente debole, con poca forza). Con questo metodo per la misurazione dei poteri a disposizione, possiamo immaginare una varietà molto estesa di ‘disegni istituzionali’. Un Presidente sarà molto forte (come il presidente francese oggi), se dispone sia di ampi poteri esecutivi (rapporto Presidente-Governo) che legislativi (rapporto Presidente-Parlamento), oppure all’opposto debole (come il presidente irlandese, sloveno o austriaco) se non dispone di poteri rilevanti sia nei confronti del Governo che del Parlamento. Ancora, possiamo immaginare vie di mezzo, cioè un Presidente forte su una dimensione ma debole sull’altra, o ancora né debole né forte rispetto ad entrambe, cioè con qualche potere sulle due dimensioni ma non tale da farne un dominus (come nel caso dei presidenti finlandese e portoghese). Insomma, avremmo costruito una matrice su due dimensioni (forza del Presidente rispetto al Governo e forza del Presidente rispetto al Parlamento) che consente una distribuzione molto ampia di casistica.
Cogliere questi aspetti del disegno istituzionale mi pare fondamentale prima di lanciarsi in generiche ‘avventure presidenziali’. Il dibattito tra i politici e i commentatori si sofferma superficialmente sul tema dell’elezione diretta del Presidente, ignorando la questione dei poteri e della ‘forza’ che gli si vuole attribuire nelle arene istituzionali. I politici metteranno mai mano a questa materia complessa con cognizione di causa? I precedenti non inducono ottimismo. Nell’ultimo tentativo serio, quella della bicamerale presieduta da D’Alema (1997-1998), l’accordo su un semi-presidenzialismo era stato raggiunto, poi fu Berlusconi a far saltare il banco, rivelandosi improvvisamente un difensore arcigno del parlamentarismo – e chissà che ora non se ne stia pentendo, viste le sue ambizioni. Quella Commissione optava per un semipresidenzialismo «temperato» o «italiano» (le parole sono del relatore C. Salvi), lontano dal modello francese, perché così imponeva la ricerca delle solite «ampie convergenze parlamentari». Ma c’erano cose significative in quella proposta: l’istituzione del Consiglio supremo per la politica estera e la difesa, guidato dal Presidente elettivo; il vincolo posto al Presidente del rispetto dell’esito delle elezioni nella scelta del Primo ministro; la precisazione che nomina e revoca dei Ministri avviene su proposta del Primo ministro; i poteri del Presidente di rinvio delle leggi. Insomma, la proposta avanzata nella XIII legislatura ribadiva essenzialmente alcuni meccanismi già stabiliti dalla prassi politica italiana e li regolava, il rapporto della Bicamerale D’Alema è un documento maturo e profondo, è agli atti della Camera e del Senato per chi volesse leggerlo.
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