Ho incontrato Giovanni Sartori per l’ultima volta il 23 ottobre, nella sua casa romana, avvolto come sempre da appunti, libri, ritagli di giornale e una vestaglia blu cobalto che sapeva indossare con grande maestria. L’età, i suoi quasi 93 anni, stavano mettendo a dura prova la sua resistenza fisica. Si lamentava perché non poteva più scrivere: quella mano, con la quale aveva scritto gli articoli più pungenti per il «Corriere della Sera» o alcuni dei capolavori assoluti della scienza politica, tuttora insuperati, continuava irrimediabilmente a tremare e non gli permetteva più di trasferire sulla carta le ancora tantissime idee che gli giravano per la testa. Per lui, che della parola scritta e della pulizia dei concetti e del linguaggio è sempre stato un maestro, quella era una condanna pesante, una punizione di cui non riusciva a darsi pace.
Così, in maniera un po’ fortunosa, mi aveva chiesto di provare ad essere la sua penna, di aiutarlo a mettere per iscritto alcune delle sue riflessioni su tutti gli argomenti che più gli stavano a cuore o che maggiormente lo irritavano (e ce n’erano parecchi). Continuava ad interessarsi e a interrogarsi su tutto: dalle miserie della politica italiana fino alla fallimentare politica estera americana (soprattutto in Medioriente), senza dimenticare quello che, accademicamente parlando, era stato il suo primo amore, la democrazia. Avrebbe voluto anche occuparsi dell’Unione Europea, perché quella che c’è non gli piaceva e credeva che, per renderla funzionante, bisognasse riorganizzarla da cima a fondo: più snella, realmente (con)federale e attenta a non opprimere i legittimi interessi nazionali. Lo preoccupava anche l’ottimismo di maniera con il quale le élite europee stavano affrontando la questione migratoria. Se c’era qualcosa che davvero lo irritava era il buonismo nullapensante, quell’idea pericolosa e un po’ fatalista per cui è sempre meglio non far niente in attesa che passi la tempesta. E così si ponevano invece le premesse per la tempesta perfetta.
Le nostre conversazioni – in realtà, le sue lezioni – erano piene di ricordi, con pochi rimpianti e forse nessun rimorso. Con un filo di commozione, Sartori mi raccontava dei momenti in cui la sua vita accademica si incrociava con alcuni importanti snodi della storia: gli incontri con il Presidente messicano al momento delicato della transizione verso una completa democrazia, le conversazioni con Nixon e Reagan, i frequenti rapporti con Kissinger e il suo impegno, sempre coerente e senza cedimenti, per le riforme istituzionali in Italia.
Da qualsiasi argomento partissimo, il punto d’arrivo era sempre lo stesso, senza che neppure ce ne accorgessimo: lo stato, non buono, della democrazia liberale. Era preoccupato, se così posso dire, sia dal basso che dall’alto. Dal basso, perché la democrazia era e deve continuare ad essere il «governo dell’opinione pubblica». Però se i cittadini sono poco e male informati, se non si interessano della politica, se non sono più abituati a pensare per astrazioni ma solo tramite (tele)visioni, allora il governo dell’opinione pubblica, e quindi la democrazia, finisce per trasformarsi nel suo opposto, e cioè nel governo di chi è in grado di controllare l’opinione pubblica.
Il pericolo che viene dall’alto era, agli occhi di Sartori, forse ancora più pressante, e non a caso ha dedicato proprio a questo tema alcuni dei suoi ultimi interventi. Ripeteva che la democrazia rappresentativa si regge sul principio del divieto di mandato imperativo. Chi entra in parlamento non ha e non dove avere padroni, ma, a tempo debito, dovrà rispondere del proprio operato davanti agli elettori. E chi «non rispetta questo principio non può entrare in parlamento». Ovviamente, non lo preoccupava soltanto il caso italiano, ma vedeva i rischi di questa degenerazione della rappresentanza ‘vincolata’ o padronale anche in altre democrazie cosiddette avanzate.
Purtroppo, per impegni o problemi di entrambi, da quel 23 ottobre non siamo più riusciti a incontrarci per riflettere assieme sugli argomenti che lui riteneva importanti. In quella occasione mi aveva fatto leggere la nuova prefazione che aveva scritto per l’edizione celebrativa del suo capolavoro: Parties and Party Systems, pubblicato per la prima volta nel 1976 e ripubblicato, quarant’anni dopo, nel 2016. Quella prefazione si chiudeva così: «Alcuni libri sono, da Platone fino ad Aristotele, dei classici eterni. Io potrò mai entrare nella categoria del “classico dei classici”? Non lo sapremo mai, ma la prospettiva mi delizia». Quel giorno non risposi; non perché la domanda fosse difficile, ma solo per non dare a Sartori la soddisfazione di essere caduto nella sua trappola retorica. Ma, adesso che non potrà più correggermi, posso confessare che, sì, Sartori è già un classico fra i classici. E tu, caro Vanni, lo sapevi benissimo.
Isabella Gherardi Sartori dice
Grazie Caro Marco. Nel silenzio del presente , leggere il
tuo scritto mi ha evocato le vostre voci mentre,l’uno di
fronte all’altro alla scrivania discutevate.
Ti stimava e provava per te molta simpatia. Ancora grazie.
Isabella
Dino Cofrancesco dice
Una testimonianza davvero bella! Grazie Valbruzzi!
Marco Valbruzzi dice
Grazie, caro Cofrancesco. Ogni tanto, anche noi scienziati politici, quando ci impegniamo ad uscire dai nostri sempre più stretti e angusti orizzonti disciplinari, abbiamo cose interessanti da raccontare. Speriamo che il Professor videns, da lassù, apprezzi lo sforzo.