Il legislatore tace e la Corte costituzionale ci pensa lei con le sue sentenze a fare le leggi. Ben tre sentenze sul suicidio assistito. Per la verità il legislatore una legge l’aveva pur fatta, ma optando per una strategia completamente diversa, quella dell’accompagnamento dei malati sino ad ammettere la sedazione terminale. Ora la Corte chiede di più, suicido assistito e, perché no, in prospettiva anche eutanasia. Il tutto garantito dal Servizio Sanitario Nazionale. Tutta la procedura della morte viene medicalizzata e avverrà con interventi del personale medico in nuovi reparti ospedalieri creati ad hoc. Ma siamo certi che sia questa la via giusta?Consentitemi di esporre un punto di vista diverso. Prima ancora di avanzare considerazioni di tipo giuridico, vorrei affrontare la questione da un punto di vista etico o, per meglio dire, bioetico. La mia tesi di fondo è presto detta. Di contro ad un suicidio medicalmente assistito, come è quello che si sta prospettando, propongo una sua ‘familiarizzazione’. Mi spiego.
Un malato terminale che chiede di morire vive di solito in un contesto familiare e, per quanto oggi possano variare i modelli di famiglia, l’amore rappresenta un elemento ad essi comune. Non è detto tuttavia che sia necessariamente un contesto di questo genere: è possibile che quell’individuo non abbia formato una propria famiglia o non si riconosca in quella d’appartenenza. Ma anche in questo caso egli non sarà mai completamente solo e, anche se nella sua vita non avrà trovato l’affetto di una famiglia, avrà trovato almeno quello di un amico fraterno. Sono i familiari, gli amici, coloro insomma che hanno condiviso con lui la vita, che stanno condividendo con lui anche la sua lenta, inesorabile fine. E sono proprio loro i soggetti emotivamente coinvolti nella sua eventuale decisione di morire e, magari, da essa pure sconvolti.
Peraltro, nella pratica clinica il processo decisionale relativo all’eutanasia di solito coinvolge i familiari, tanto che esso può essere inquadrato nella triade paziente-medico-famiglia piuttosto che esaurirsi nel rapporto paziente-medico come fa la Corte. È in questo contesto relazionale che, forse, possiamo trovare la chiave per risolvere anzitutto da un punto di vista morale l’enigma dell’eutanasia.
Qualche esempio concreto potrà meglio illustrare ciò che intendo dire. Il marito che ha amato sua moglie per tanti anni condividendo con lei momenti di intensa gioia, conoscendo ora il tormento della sua compagna e la sua risoluta volontà di farla finita non potrà che condividere con lei anche quest’ultima sua decisione e darle la morte che implora, come gesto supremo del suo amore. Il figlio di fronte alla madre che gli ha donato la vita e ora, consunta e vinta dal dolore, lo implora di donarle la morte non potrà sottrarsi a questo compito. E la madre che gli ha donato la vita non potrà pure non togliergliela quando essa sia diventata per lui a tal punto insopportabile da spingerlo a invocare un brusco congedo al protrarsi di un’esistenza tiranneggiata dal dolore. O ancora, il compagno di tante battaglie di fronte al richiamo straziante dell’amico fraterno non potrà fargli mancare quel gesto estremo di solidarietà che gli
viene con fermezza richiesto.
Se la decisione di morte del malato è irrevocabile come la sua malattia, allora solo chi più gli è stato vicino, chi più di ogni altro ha desiderato la sua vita, potrà ora donargli pure la morte. Ora, in questo attimo, in questo presente autenticamente deciso di un individuo che riconosce di fronte all’altro il suo esserci-stato e il non voler esserci-più. Colui che chiede di morire sentirà nel momento di andarsene la presenza dell’affetto più caro, chi lo ha aiutato a farlo di aver adempiuto un obbligo a cui per amore fraterno non poteva sottrarsi. Non si tratta di un’azione di routine, come diventerebbe se essa fosse, come la Corte vuole, istituzionalmente medicalizzata, ma di un atto unico ed irripetibile per la persona chiamata a compierlo: l’ultima testimonianza d’amore o di profonda amicizia nei confronti del proprio caro la cui vita è ormai soltanto un cumulo crescente di sofferenze.
Si obbietterà che si tratta di pura retorica, che gli esempi fatti non sono realistici e che nella prassi si potrebbero verificare casi in cui ci si è solo voluti liberare di un malato che in realtà voleva essere aiutato a vivere e magari i familiari non vedevano l’ora di entrare in possesso dell’eredità del loro parente. Non c’è dubbio, anche questo è possibile. La questione da porsi è però, anzitutto, un’altra: c’è qualcosa di moralmente riprovevole in gesti eutanasici d’amore con il cuore spezzato come Frankie in Million Dollar Baby? Ecco, io credo di no. Non è una situazione ‘alla Kevorkian’, qui si tratta di una persona a cui Frankie tiene tantissimo: Maggie non è sua figlia, ma di fatto lo diventa mentre proprio la famiglia della ragazza pensa solo ai suoi soldi. Alla fine, Frankie sente di non potersi sottrarre alla richiesta della ragazza che dal ring finisce in un letto d’ospedale. Paralisi totale permanente. Maggie prima lotta poi vorrebbe farla finita; ci prova anche, ma solo Frankie è in grado di gettare la spugna, non per salvarle la vita ma per rispettare la volontà di Maggie.
Non credo ci sia qualcosa di condannabile neppure sotto il profilo giuridico in questi atti. E basterebbe, molto semplicemente, che il legislatore eliminasse o modificasse quegli articoli e quei commi del Codice penale che prevedono inflizioni di pene nei confronti di quanti abbiano compiuto un atto eutanasico per le ragioni e nel modo che ho descritto. Questa a mio avviso sarebbe la risposta che il legislatore dovrebbe dare ad una Corte che di fatto vuole dettare legge, e in prospettiva una legge in cui alla fine il medico verrà autorizzato a diventare il killer del suo paziente nei pubblici ospedali, magari dietro pagamento di un ticket.
N.T dice
Vado controcorrente, la decisione di togliersi la vita non credo derivi totalmente dalla volontà del singolo soggetto, ma dalle pressioni di questa società dello scarto che vuole imporre.
La questione morale che mi chiedo è Quale sarà il metro di dove inizia l’inutilità dell’esistenza di una vita?
La cosa deve far riflettere soprattutto perché nelle pseudo democrazie in cui viviamo spesso dimentichiamo come chi traccia o traccerà questo confine non sarà mai il singolo, ma il sistema nel quale vive.
Il dolore non è qualcosa di misurabile da un esame del sangue nel quale decidere, potenziare le cure palliative è una soluzione che da dignità di certo non la morte
Ritengo che ogni singola vita appartenga a Dio e solo lui può toglierla.
Perché in fondo siamo quasi 8.5 miliardi nel mondo, 8.5 miliardi di misteri venuti al mondo per un motivo.
Giuseppe Palma dice
Per salvare la vita, durante la pandemia il governo limitò la libertà personale con semplici atti amministrativi. E la Corte costituzionale avallò questa scelta. Di contro, con il suicidio familiare assistito, la giurisprudenza ammette che le vita te la puoi pure togliere da solo. Dunque la vita non è più valore assoluto ma bene dai tutelare a seconda degli eventuali interessi contingenti.
Sergio Belardinelli dice
Sono d’accordo. In questo modo si legittimerebbe oltretutto una pratica che nel passato, di fronte alle situazioni più estreme, erano esattamente i medici e le famiglie a mettere misericordiosamente in atto.
Sergio Belardinelli