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Una classe politica a lezione di Risorgimento

30 Gennaio 2020 di Danilo Breschi 1 commento

«Un governo fondato sul principio della benevolenza verso il popolo, come il governo di un padre verso i figli, cioè un governo paternalistico (imperium paternale) in cui i sudditi, come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso, sono costretti a comportarsi solo passivamente, […] è il peggior dispotismo che si possa immaginare […]. Non un governo paterno, ma un governo patriottico (imperium non paternale, sed patrioticum) è quello che solo può essere concepito per uomini capaci di diritti, anche in rapporto con la benevolenza del principe». Così Immanuel Kant nel 1793, con aggiunta e precisazione fondamentali e forse definitive: «Patriottico è precisamente il modo di pensare per cui ognuno nello Stato (non escluso il sovrano) considera il corpo comune come il grembo materno da cui ha tratto la vita e il paese come il suolo paterno sul quale è cresciuto e che deve a sua volta tramandare come un pegno prezioso; e ciò solo al fine di difendere i suoi diritti per mezzo di leggi della volontà generale e senza ritenersi autorizzato a usarne a suo arbitrio illimitato».

Sicuramente definitiva è l’accezione di patriottismo che Kant offre a chi intenda ancora coniugare Stato, nazione e liberaldemocrazia, ovvero difendere i cardini politico-istituzionali della civiltà europeo-occidentale. Per Occidente includo anche quella parte ‘sequestrata’ dal comunismo fino al 1989, come Milan Kundera ebbe a definire nel 1983 l’Europa centrale, i cui confini erano disegnati da Praga, Budapest e Cracovia. Dal tardo Illuminismo ad un certo Romanticismo si è costruito un impianto ideologico che ha posto le premesse dello Stato di diritto.

Si tratta di idee e principi propri di una tradizione politico-culturale rigogliosa in Italia e decisiva per la nostra storia, tragicamente interrotta cent’anni fa dall’avvento del fascismo al potere. Se potessimo viaggiare nel tempo, avanti e indietro, e decidessimo di tornare a circa centocinquant’anni fa, attorno al 1870, prossimi all’annessione di Roma e dei territori pontifici al neonato Regno d’Italia, ebbene noi scopriremmo che il tema della nazione, della sua identità e sovranità, non costituivano affatto motivo di divisione tra destra e sinistra.

Essendo divenuti Stato unitario nel tardo Ottocento, avevamo già una dialettica politica interna articolata spazialmente, e orizzontalmente, sull’asse destra-sinistra. Era la logica conseguenza del parlamentarismo ottocentesco, che aveva oramai attecchito in tutta l’Europa investita dagli effetti politici e culturali della Rivoluzione francese. Un portato indiretto del costituzionalismo liberale classico. Perciò, più di ogni altro Stato-nazione europeo, l’Italia poteva vantare una cultura patriottica e un’identità nazionale condivise da destra e sinistra.

Nonostante la discriminante istituzionale (monarchia o repubblica), le lotte risorgimentali unirono infine posizioni politiche pur distanti e dettero vita ad una classe dirigente, quella delle cosiddette ‘destra e sinistra storica’, che molto fece dal poco e dal difficoltoso da cui partì. Sfiderei oggi una qualsiasi classe politica europea a mettere insieme sette entità statuali, sia pure medio-piccole, ma soprattutto unire il Nord a reggimento politico sabaudo o asburgico con il Sud borbonico. Per non parlare dello Stato pontificio, tanto arretrato politicamente e socialmente quanto era refrattario, anzi ferocemente avverso, allo spirito patriottico-risorgimentale.

Tutta questa complessa eterogeneità è stata messa assieme centocinquant’anni fa. E solo cent’anni fa si aggiunsero Trento e Trieste (quest’ultima con travagli dolorosi ancora nel secondo dopoguerra). L’amalgama funzionò più di quanto non si pensi. E mi riferisco, come esempio, non tanto alla prima guerra mondiale, prova sommamente drammatica e comunque superata con fierezza, ma al dopo-terremoto di Messina del 1908. Fu di magnitudo 7,2 della scala Richter. Metà della popolazione messinese morì, e così un terzo di quella di Reggio Calabria, che fu l’epicentro di quella che viene a tutt’oggi ritenuta una delle più gravi catastrofi naturali in Europa per numero di vittime, tra le 90 e le 120mila. Le polemiche e i ritardi non mancarono, d’altronde eravamo in tempi tecnologicamente inferiori ai nostri e con una guerra mondiale alle porte. Eppure, già alla fine del 1917 erano stati costruiti 437 appartamenti economici con 1394 vani, 47 botteghe e 166 appartamenti per impiegati. A testimoniare che il Sud non era ancora stato abbandonato e veniva pensato come parte costituiva della nazione italiana.

L’Italia poteva dunque vantare una tradizione politico-culturale inedita e incomparabile. Potrebbe, forse, farlo anche oggi, se solo non parlasse tanto – e, da parte di alcuni, a vanvera – di ‘nuovo Umanesimo’, quanto della necessità di un ‘nuovo Risorgimento’ per insufflare di speranza e progettualità concreta una politica italiana asfittica e impaurita. Non ci si dovrebbe dividere sul valore preminente dell’interesse nazionale, consapevoli come questo rafforzi la democrazia liberale, se ben coniugato con una visione che consideri la nazione come il medium tra individuo e umanità. Sulle nazioni si edificano libere patrie, stati di diritto, spazi definiti entro i quali vige il primato di una legge comune, il cui principio ispiratore è «l’uguaglianza intesa come pari trattamento degli individui da parte di regole giuridiche che si rivolgono alla generalità dei cittadini».

Così scriveva Antonio Zanfarino commentando il pensiero di Kant, e, pur nella convinzione che le nazioni non sono entità rinvenibili in natura né tantomeno eterne o universali, il filosofo sardo sottolineava come l’ordinamento politico è, sì, «spazio, tempo, popolo, struttura sociale, cittadinanza, istituzioni, governo», ma anche che tutte queste realtà sarebbero prive di ogni qualità «e sconnesse se non integrate da criteri di nazionalità». Aveva proprio ragione quando vent’anni fa scriveva che «un territorio ridotto a semplice sostrato ecologico e morfologico, a luogo di immediatezze materiali e non di memorie e di aspirazioni non parlerebbe alle coscienze, non avrebbe storia, non riuscirebbe a far rivivere il passato, a orientare il presente, a preparare il futuro».

La nazione va pensata dal punto di vista insieme territoriale e culturale, uno spazio fisico e spirituale che fa prosperare i suoi abitanti solo se sa riferirsi ad una continuità storica di simboli e di valori condivisi. Ecco perché occorre studiare la storia nazionale di generazione in generazione, insegnarla con passione ed equilibrio agli autoctoni come agli allogeni, se davvero li si vuole integrare e promuovere. Ecco perché è da un massiccio recupero culturale e metapolitico della complessa e plurale lezione risorgimentale che potremo forse porre qualche primo solido mattone per una classe dirigente italiana tutta da ricostruire.

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Commenti

  1. Corinna Pieri dice

    31 Gennaio 2020 alle 6:54

    L’analisi non fa una piega. Peccato che, fatta l’Unità d’Italia, il Patriottismo sia stato manipolato in maniera difforme dal pensiero risorgimentale autentico (fino alla caduta della Repubblica Romana del 1849) , e “trasformato” in Nazionalismo trascinatore emozionale di masse, quel nazionalismo che oggi deraglia verso un “sovranismo” altrettanto frainteso. Ed è qui che si gioca la partita per il futuro. Riappropriarsi di ” quel Patriottismo” che da Kant in poi riuscì a costruire in Italia l’esperienza irripetibile della Patria dei diritti e dei doveri aperta e proiettata verso l’Umanità (vedasi la Carta Costituzionale della R.R. del ’49). Quindi occorrerebbe fare chiarezza una volta per tutte sulla antitesi tra Patriottismo e Nazionalismo prima di mandare a lezione di “Risorgimento tout court” classe politica… e anche cittadini.

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