La rielezione di Sergio Mattarella pone un problema che andava già affrontato ai tempi del bis di Giorgio Napolitano. Infatti se la Costituzione non proibisce la rielezione di un Presidente della Repubblica, lo fa in un’ottica ben precisa volta a dare un senso allo stesso mandato di sette anni. Nel corso della Costituente Edgardo Lami Starnuti e Francesco Saverio Nitti avevano provato ad emendare il testo dell’allora articolo 81 (oggi art.85) della costituzione inserendo, il primo, un riferimento esplicito alla non rieleggibilità del Presidente e, il secondo, una durata di soli 4 anni per la prima carica dello Stato. Vennero convinti a ritirare i loro emendamenti da Antonio Costantini e Egidio Tosato che insisterono sulla natura parlamentare della Repubblica italiana e sul fatto che «i poteri del Presidente, del Capo dello Stato, sono poteri limitati, sono poteri soggetti a costante controllo delle due Camere del Parlamento».
Tuttavia oggi, a quasi ottant’anni dalla Costituente, il quadro dentro cui si muove il Presidente della Repubblica è profondamente mutato. Se fino ai primi anni Novanta il Presidente esercitava il suo potere in una serrata dialettica con il parlamento e con i partiti – il Presidente era addirittura «prigioniero dei partiti» secondo quanto affermava Stefano Merlini – gli effetti di Tangentopoli e dell’arrivo sulla scena di Berlusconi (che ha dato vita a un bipolarismo attorno alla sua persona che ha insterilito l’intero dibattito pubblico e parlamentare), hanno contribuito a un progressivo discredito dei partiti e con essi del Parlamento stesso. Se si sommano a tali elementi il crescente bisogno di decisioni tempestive generato dalle emergenze scaturite negli ultimi quindici anni nel quadro internazionale e affrontato tramite la «dittatura degli esecutivi» emersa nell’Ue a seguito della crisi del 2008, si vedrà come il Parlamento italiano ha perso una parte importante della sua centralità. La cosa è stata certificata dagli stessi cittadini che in un referendum nel 2020 hanno deciso di confermare il taglio del 36,5% dei parlamentari, chiaramente percepiti come un inutile fardello.
In tale contesto la figura del Presidente della Repubblica si è rafforzata in senso speculare alla crisi del Parlamento. Non solo la Presidenza ha visto i suoi indici di popolarità crescere ma il suo ruolo politico è stato decisivo e sempre più rilevante nella creazione dei cosiddetti «governi del presidente» – Ciampi nel 1993, Dini nel 1995, Monti nel 2011 e Draghi nel 2021 – che hanno sancito, per dirla con Ernesto Galli della Loggia, la «tendenziale irrilevanza» degli «attori parlamentari» con la conseguenza che in Italia la formula «il governo di forma in parlamento […] è virtualmente svuotata di ogni valore». Governi, questi del Presidente, che hanno suscitato diverse critiche, tra cui quelle di Domenico Cella che in una nota ha sottolineato quanto devii dalla Costituzione «una potestà politicamente “neutra” (il Presidente della Repubblica) che promuove un “suo” governo» e di Luciano Canfora che ha sottolineato il rapporto tra l’interpretazione estensiva dei poteri del Quirinale e la creazione di una «democrazia dei signori».
Siffatto scenario vede ora con bis di Mattarella – Napolitano per lo meno rifiutò di svolgere un secondo settennato – la creazione di un fondamentale precedente volto a sancire una Presidenza dalla durata di quattordici anni (7+7). Si tratta di una scelta inedita, non riscontrabile tra le principali repubbliche parlamentari esistenti. Infatti la Repubblica Federale di Germania ha visto per tre volte la rielezione del Presidente federale a fronte di un mandato di cinque anni (quindi si parla di dieci anni di durata dell’incarico per il singolo Presidente), la Terza Repubblica Greca ha visto per due volte la rielezione del capo dello Stato ma sempre con un incarico dalla durata di cinque anni, mentre Israele presenta ben cinque casi di rielezione del Capo dello Stato tutti con un mandato di cinque anni (il record delle rielezioni lo detiene Itzhak Ben-Zvi che rimase in carica per undici anni) e zero da quando la durata della carica è stata estesa a sette anni. In India, la più grande Repubblica parlamentare al mondo, vi è stata un’unica rielezione a fronte di un incarico dalla durata di cinque anni: quella del primo Presidente Rajendra Prasad.
In un momento in cui la crisi del Parlamento è palese e in cui la prima carica dello Stato ha già fortemente esteso i suoi poteri, rischiando di alterare l’impianto costituzionale descritto ai tempi della Costituente, si sta di fatto procedendo nei sensi di un ulteriore rafforzamento della Presidenza della Repubblica. Lo si fa in una direzione sostanzialmente para-monarchica se si considera l’elemento della durata del mandato presidenziale come uno degli elementi fondamentali che distinguono una repubblica da una monarchia parlamentare.
Il rischio è quello di un ulteriore e letale indebolimento dell’equilibrio tra i poteri del sistema parlamentare che andrebbe assolutamente evitato qualora si abbia a cuore il futuro della, già fortemente malandata, democrazia italiana. A fronte di tale problema, vi sono due possibili soluzioni. Si può procedere alla riduzione del mandato presidenziale a cinque anni, portando così la durata complessiva in caso di rielezione a dieci anni, come avviene nel resto del mondo, o si può adottare il vecchio emendamento di Lami Starnuti che prevedeva quanto segue: «Al primo comma, dopo le parole: per sette anni, aggiungere: e non è rieleggibile». Come ha notato Mario Ricciardi è illusorio pensare che questo Parlamento, visti i suoi equilibri precari, possa procedere a una revisione costituzionale. Spetterà quindi al prossimo, eletto nel 2023, affrontare questa rilevante questione.
Emidio Diodato dice
Aggiungerei anche gli accresciuti poteri in tema di politica estera, vincoli europei e alleanze internazionali.