[a partire da una relazione tenuta dall’Autore a «Il tempo delle donne» – La felicità, adesso, 9 settembre 2018]
- «Ha navigato, certo, ma non come Palinuro, bensì come Ulisse; anzi, come Platone». Così Pietro Giles presenta a Tommaso Moro il viaggiatore Raffaele Itlodeo, colui che è stato a Utopia ed è tornato per raccontarcela. Non come Palinuro, il nocchiero di Enea che, vinto dal sonno instillatogli da Venere, precipita in mare. Non come Ulisse, che vaga per dieci anni, vive avventure meravigliose e torna a casa per accorgersi che è occupata dai Feaci. Bensì come Platone, che quando viaggia per mare non gli va molto bene (vedi la disavventura con il tiranno Dionisio), ma quando naviga con il pensiero compie una prima e poi una seconda navigazione, si inventa la metafisica e fonda la repubblica ideale. Però, a dirla tutta, non vorrei navigare nemmeno come Platone, bensì proprio come Tommaso Moro, che raccoglie da Itlodeo (letteralmente ‘Il chiacchierone’) la descrizione di Utopia e ne fa un manifesto politico visionario, apparentemente folle ma in fondo estremamente ragionevole, animato dallo spirito dell’umanesimo rinascimentale e da un realismo non rinunciatario. Non il progetto ingegneristico di una città perfetta e pianificata in ogni dettaglio, bensì la visione in fondo semplice di come le persone potrebbero vivere se solo si decidessero a vivere giustamente, alternando dosi moderate di lavoro (6 ore al massimo a giornata), condivisione di cultura, relazioni imperfette ma dialoganti, arti e giochi. La vita degli utopiani, dice Moro, è anzitutto piacevole, armonica e giusta.
- Ci hanno abituati a pensare che tutto questo non è possibile. Anzi, che se si realizzasse sarebbe un incubo, una distopia. Dobbiamo rinunciare al futuro, ci dicono i profeti del postmoderno: l’Occidente tramonta, la tecnologia è una minaccia per il futuro, la storia è alla fine e l’incontro fra le culture è uno scontro di civiltà. La retorica postmoderna ha interpretato idee come la giustizia, la verità, la speranza o il desiderio come categorie pericolose, intrinsecamente totalitarie, improponibili. Nella società ‘liquida’ tutto non solo è privo di una forma, ma non deve nemmeno averla. Idee moderne come ragionevolezza, equità, diritto, conoscenza appartengono a quelle «grandi narrazioni» di cui Lyotard ci ha consigliato di diffidare. Resta solo la rete della comunicazione, il flusso delle informazioni che si legittimano da sole, l’autorità dell’efficacia. Questo genera però quella che Svetlana Boym chiama «un’epidemia globale di nostalgia», oppure la «retrotopia» di Bauman: il pensiero che ciò che c’era prima, qualunque cosa fosse, era meglio.
- Il problema è che in questo modo si è legittimato l’arcaismo, il riflusso verso un’origine presunta e idealizzata, l’idea dell’etnico o del ‘popolo’, quella categoria che dal romanticismo ai nazionalismi ha già avuto la sua disastrosa stagione di gloria. Ora, l’arcaismo non vede nel presente altro che rovine, peggio: vede il marcio, il decadente, che vorrebbe spazzare via per un nuovo inizio, un’apocalisse rigeneratrice, la distruzione come grande purificazione. Sono tentazioni immani e giocarci è tanto infantile quanto pericoloso.
- Per salvarci non abbiamo altra via: ricominciare a pensare il futuro. Osando, ma soprattutto immaginando. Martin Buber diceva che l’utopia è «l’immagine del desiderio» (Wunschbild), e più precisamente è l’immagine concreta del desiderio di giustizia. Tommaso Moro osa ancora di più: è il desiderio di felicità, né più né meno, che si realizza quando le istituzioni sono giuste, la proprietà è comune e le relazioni regolate in modo ragionevole. Utopia si basa sulle famiglie, ma Moro, in grande anticipo persino su se stesso e il suo monarca Enrico VIII, prevedeva il divorzio quando le cose vanno male. Niente di straordinario. Però Moro non esitava, da moderno qual era, a proiettare questa immaginazione in un futuro non troppo lontano, anzi, addirittura nel presente, all’interno della storia e non in qualche era post-apocalittica, in un racconto di viaggio e non in una fiction fantascientifica.
- Questo è il senso del futuro che possiamo e dobbiamo recuperare, un futuro neomoderno, non postmoderno: un futuro possibile e migliore, credibile al punto di poterci dedicare la passione di una vita, per quanto disincantati si possa essere. Un futuro che è almeno in parte nelle nostre mani e che addirittura vogliamo collocare lungo una linea di progresso – una parola che quasi nessuno ha più il coraggio di usare. Progresso morale e civile, non solo tecnico e scientifico: istituzioni più giuste, uno sviluppo sostenibile e armonico, una consapevolezza più profonda. Solo che per pensarlo non ci serve una scienza sociale, una «futurologia comparata» (come la chiamava Hans Jonas), un’ideologia che programmi tutti i passaggi e tutti gli assetti politici che devono realizzarsi per arrivarci. L’ingegneria sociale ha fallito miseramente in questi due secoli e, fra l’altro, proprio questa è la differenza fra la pianificazione matematica di Platone e l’immaginazione ragionevole di Tommaso Moro. Provare a immergersi in una città che vive bene e chiedersi come funziona è diverso dal progettarla a tavolino sulla base di principi di fisica e di fisiologia umana. Il primo metodo è molto, molto più realistico e meno esposto a deliri totalitari.
- Dunque come possiamo pensarla questa Utopia neomoderna? Non può che essere una serie di frammenti, senza pretesa di esaustività; la base sono alcune delle cose che nella modernità (sì, la tanto vituperata modernità) ci siamo guadagnati: l’idea del rispetto, la fiducia in un minimo di capacità critica e creativa, il confronto ragionevole come metodo scientifico e regola sociale, parole come giustizia, libertà, eguaglianza, solidarietà e diritti. Quello che sia i profeti del postmoderno sia gli arcaisti vorrebbero farci dimenticare. E che noi neomoderni vogliamo invece riprendere, risignificare, reinventare.
- Qual è l’immagine, dunque? Una città, inevitabilmente. Sostenibile e vivace, ordinata quanto basta per muoversi e creativa dove non te lo aspetti. Per come mi si affaccia spontaneamente: giardini verticali, ma anche orizzontali, obliqui, rovesciati; auto, bus, moto e biciclette elettriche: un silenzio che le città non hanno mai visto sinora; biblioteche digitali che custodiscono quegli oggetti antichi che sono i libri ma che in realtà sono una scusa per incontrarsi, per parlare, per condividere immagini e parole; istituzioni che danno corpo alla parola eguaglianza e regole che esprimono il rispetto, il riconoscimento dell’identico e del differente; errori, anche, ma il coraggio di ammetterli e le forme sociali del perdono e della riconciliazione; relazioni autentiche, consapevoli dei propri limiti; le falsità smascherate perché non si vive di menzogne; le lingue vive e le traduzioni accurate, ma anche una lingua spiccia per comunicare; le arti diffuse ovunque e la musica, soprattutto la musica: radici e innovazione, pulsazione e disarmonie bilanciate (solo il Blues sa fare questo; e lo ha insegnato anche all’armonia classica).
- Una visione, insomma: perché ogni garage band che si rispetti suona sempre per un pubblico oceanico, anche in cantina. Ci vuole solo il sound giusto e un’intesa fluida fra i musicisti.
Marta Regalia dice
Wow, semplicemente.
Roberto Mordacci dice
Grazie!