La sciagurata iniziativa del primo ministro David Cameron, un conservatore al quale il suo stesso pensiero politico avrebbe dovuto precludere il ricorso a un voto popolare su un tema di così grande incidenza continentale e internazionale come l’uscita del Regno Unito di Gran Bretagna dall’Unione Europea, ha messo in moto un processo di straordinaria pericolosità per la compattezza stessa del Regno. Infatti la Scozia, la cui popolazione in maggioranza ha votato per la permanenza nell’Unione, sollecita ora un nuovo referendum (dopo quello che precedentemente ha deliberato di stretta misura in favore dell’unità del Regno e nel Regno) con il quale rivendicare insieme indipendenza da Londra e permanenza nell’Unione, pur se è evidente che in entrambi i casi si tratta, sia pure per ragioni diverse, di finalità impervie da conseguire. Ma anche Galles e Irlanda del Nord soggiacciono adesso, sull’onda scozzese, a nuove pulsioni indipendentiste, mentre in Spagna si rinfocolano per imitazione i propositi secessionisti di Catalogna e Provincia Basca.
Questo scenario tanto inquietante, che mette a repentaglio l’unità statuale di (almeno) due potenze europee, con tutte le ricadute in politica interna, comunitaria ed estera che possono derivarne, sollecita a un paio di osservazioni che ritengo di grande rilievo oggettivo.
Prima osservazione. Che l’Unione Europea sia fonte di molteplici imbarazzi e inquietudini nelle opinioni pubbliche e anche nei governi di molte nazioni che ne fanno parte, specie ma non solo per numerose scelte di linea economica, è sotto gli occhi di tutti, e non vale farne il repertorio nella presente nota, così come numerose sono le divergenze in tema di flussi migratorî e di accoglienza. Che occorra perciò correggere e riformare certi andamenti e le connesse normative è nell’ordine delle cose. Qui però, almeno con riferimento al caso britannico, merita forse andare all’essenziale, che ha radici profonde nella storia. La Gran Bretagna (formalmente tale dal 1707, prima Inghilterra) per lunga plurisecolare tradizione si è proclamata, e per molti aspetti e circostanze in sede di Europa continentale è stata al dunque riconosciuta, come garante dell’equilibrio europeo. Cosa ha significato ciò nel corso del tempo, prima e dopo il Congresso di Vienna del 1814-15?
Per politica di equilibrio (con il relativo principio) si è inteso che nel Vecchio Continente, e più precisamente nella sua area oltre Manica, pur con i suoi confini non sempre delineati sul versante orientale, nessun Paese deve raggiungere una posizione di egemonia tale da mortificare e penalizzare pesantemente le altre realtà statuali, in tal modo configurando tra l’altro anche un fattore di pericolo per gli interessi globali britannici. È stato così quando la Francia post rivoluzionaria e napoleonica ha preteso di affermare la sua grandeur dall’Atlantico a Mosca; quando la lotta tra Prussia, poi Germania, e Austria per la preminenza nel mondo di lingua tedesca si è risolta a favore dell’Impero germanico; quando la Repubblica nazionalsocialista di Adolf Hitler ha preteso di sommergere e sottomettere l’intero continente fino a Mosca.
È difficile sfuggire all’ipotesi che la cosiddetta Brexit (ferma restando una molteplicità di divergenze su altri, vari e plurimi terreni) sia la risposta di Londra a una spinta egemonica per la terza volta tedesca, oggi guardando a Berlino soprattutto come fulcro di una matrice in grado prima di imporre, poi di consolidare, una visione dell’economia a trazione germanica, pur se il Regno Unito fin dall’inizio si è tenuto e mantenuto estraneo alla eurozona: segnale questo che i tedeschi e le altre nazioni a Berlino allineate non avrebbero dovuto sottovalutare.
Fortunatamente, e al contrario di precedenti occasioni, l’emergenza e il consolidamento di una tentazione egemonica oggi non hanno condotto a ricorrere alla guerra per ristabilire la logica dell’equilibrio. Del resto, dopo il 1945 una nuova grande guerra europea non sarebbe stata e non sarebbe possibile per motivi che in questa sede non possiamo ora ricordare. Ciò significa che il criterio negoziale mantiene ancora un suo spazio per gestire in termini e in limiti controllabili i rapporti tra Londra e oltre Manica.
A questo punto, peraltro, entra in campo la seconda osservazione. È certo significativo che Scozzesi e altri mirino a restare nell’Unione Europea. Ciò vuol dire che il parlamento e il governo del Regno Unito debbono muoversi con circospezione nella conduzione delle trattative testé aperte con Bruxelles, anche per evitare di accentuare spinte disgreganti interne in quella che fin qui è e rimane la Gran Bretagna. Tuttavia non si può tacere che in taluni ambienti dell’oltranzismo europeista sono presenti tentazioni e tentativi di incoraggiare le spinte potenzialmente disgreganti delle iniziative scozzesi, e poi magari gallesi e nord-irlandesi, fino a immaginare una fuoriuscita di queste aree del Regno Unito per acquisirle nella loro piena autonomia, cioè come nuove realtà statuali indipendenti, nell’Unione Europea.
Questa prospettiva, che contraddittoriamente strumentalizza aspettative meritevoli di attenzione (la speranza di indurre il Regno Unito a ritornare sui suoi passi rispetto alla Brexit) fino a configurarsi come esplicitamente provocatoria, è a rischio altissimo, perché la Gran Bretagna, come è e deve essere e valere per ciascuno Stato sovrano, non potrebbe accettare senza reagire la sua decomposizione territoriale e istituzionale. Di più, ed è ulteriore fattore di rischio, senza il Regno Unito nella sua consistenza compiuta, l’Europa è una realtà dimidiata, incompleta, indebolita. Non solo, dunque, per Londra l’avallo più o meno esplicito della dissipazione del Regno Unito da parte europea rappresenterebbe un intollerabile schiaffo, che alimenterebbe fino all’ultimo grado i contrasti tra le due sponde della Manica. Ma inoltre per l’intero Vecchio Continente l’operazione sarebbe in perdita, nel profilo di un futuro che nell’arco tra dieci e venti anni, se non prima, si delinea quanto mai pesante per le sfide che su più terreni stanno maturando e che fin da subito richiedono convergenze più che divergenze, se l’Europa vuole ancora avere un ruolo nel concerto mondiale.
Dino Cofrancesco dice
Trovo molto ragionevoli le considerazioni dell’amico Fisichella ma l’incipit dell’articolo mi ha lasciato molto perplesso:.
Se c’è una questione sulla quale un popolo è tenuto a intervenire è la decisione relativa alla comunità politica: chi ne deve far parte e chi no. Al popolo fu chiesto, nei plebisciti, se voleva far parte del Regno d’Italia. Perché oggi non si dovrebbe consultare su quella più ampia comunità politica che è l’Europa?
Domenico Fisichella dice
Ringrazio l’amico Cofrancesco per il suo commento. Circa il punto di dissenso, il confronto con i plebisciti che tra il 1848 e il 1870 punteggiano la storia del Risorgimento italiano non mi paiono pertinenti: quegli eventi, certo importanti simbolicamente, sancivano situazioni già precedentemente delineate su base diplomatica e militare. Oggi i referendum danno colpi micidiali a quel che rimane delle istituzioni rappresentative, nelle quali vanno assunte certe decisioni: è qui che si esprime la volontà della nazione e delle nazioni, anche in tema di Europa.