La valutazione di qualsiasi legge elettorale richiede ovviamente prima di individuare il parametro di giudizio, operazione che richiede di esplicitare dei giudizi di valore (di per sé opinabili) che si connettono a una lettura della concreta società chiamata ad utilizzarlo (anche qui con valutazioni opinabili).
Non mi riferisco a parametri di costituzionalità sui quali si concentra a torto il dibattito dopo le due sentenze della Corte: ormai ogni critica di merito tende a trasformarsi in problemi di costituzionalità. In realtà in questo caso tali critiche non hanno un grande consenso né un particolare spessore. Qualcuno si interroga soprattutto sul fatto che non è ammesso il voto incoerente tra collegio e lista, ma questa scelta, che evidentemente non è obbligata, può avere ragioni apprezzabili, come la volontà, legando voto al partito e al candidato, di limitare i fenomeni di trasformismo individuale, che tendono a svuotare la sovranità popolare (artt. 1 e 49 Cost.).
Intendo invece un parametro di merito.
Sono personalmente rimasto legato, sin dall’inizio della transizione, a due criteri, gerarchicamente ordinati. Il primo è quello del cittadino come arbitro dei Governi, secondo la nota espressione di Ruffilli, perché la nostra società non è solcata da linee di fratture così profonde da giustificare sistemi rigidamente fotografici. Sorgono sì, come dappertutto, nuove formazioni di critica radicale al sistema, ma la presenza di sistemi fotografici che spingono a grandi coalizioni eterogenee contro di esse non è un antidoto, anzi le spinge a prosperare. Questo fine si può perseguire con modalità diverse; semplificando sono riducibili a due: uno neo-parlamentare che poggia sulla costruzione di una maggioranza tramite premi intorno al vertice dell’esecutivo (modelli sub-nazionali italiano e francese); uno semi-presidenziale alla francese, specie dopo le opportune riforme anti-coabitazioniste del 2000 (doppia elezione maggioritaria, con quella Presidenziale che nazionalizza la contesa e consente poi di conformare la maggioranza parlamentare su quella presidenziale). L’estensione della prima al livello nazionale è stata bocciata col referendum del 4 dicembre scorso e poi ha portato con sé la sentenza della corte che ha soppresso il ballottaggio. A questo punto, pertanto, appare politicamente opportuno non riproporla e spostarsi sulla seconda, che richiede comunque anch’essa una riforma costituzionale. Non si poteva richiedere pertanto ad una legge approvata ora a Costituzione invariata di perseguire in modo efficace questo obiettivo, ma quanto meno di avvicinarlo.
Il secondo obiettivo era quello di sostituire il sistema delle preferenze, che non è utilizzato in nessuna democrazia europea medio-grande perché mette in competizione il giorno delle elezioni soprattutto i candidati della stessa lista tra di loro, premessa di ulteriori problemi nei sistemi strutturati sul rapporto fiduciario, anziché le liste concorrenti. Ovviamente ciò si può ottenere con collegi, con liste bloccate corte, con mix tra i due, ecc. La cosa più importante è però allontanarsi il più possibile dalle preferenze senza cadere nelle liste bloccate lunghe della Calderoli che, non potendo essere stampate sulla scheda, rendono i candidati non conoscibili neanche superficialmente.
Posti questi parametri, il giudizio deve tener conto, come già accennato, della situazione di partenza: Costituzione invariata e sistemi difformi: proporzionale con bassa soglia al 3% e premio improbabile al 40% alla Camera, proporzionale con soglie alte (8% per la lista) al Senato; mix di capolista bloccato e di preferenza doppia alla Camera, preferenza unica su scala regionale (!) al Senato.
Poste queste premesse è evidente che alla luce del primo criterio la legge è un po’ migliorativa rispetto a quelle pre-vigenti, ma non troppo. In entrambi i casi la soglia del 40% è obiettivamente molto lontana dalle possibilità reali (prima era una soglia esplicita per il premio, ora implicita per raggiungere grazie soprattutto alle vittorie nei collegi una maggioranza autosufficiente), ma prima, in caso di mancato raggiungimento, l’effetto dis-rappresentativo era solo legato allo sbarramento, ora invece vi è anche quello legato ai collegi. È possibile che accada di nuovo quanto accaduto nel 2013, allora soprattutto per effetto del doppio rapporto fiduciario, ossia che le alleanze si scompongano e si ricompongano? Sì, ma a questo meccanismo portavano comunque le leggi pre-vigenti che prevedano le coalizioni al Senato e che incentivavano listoni coalizionali alla Camera. Non abbiamo risolto quindi il problema, non c’è da essere soddisfatti, abbiamo però limitato in parte i danni, cosa mai disprezzabile.
Alla luce del secondo criterio, invece, un sistema che porti a candidati ben identificabili, con un mix tra collegi e liste corte, è particolarmente apprezzabile rispetto alle preferenze, specie quelle sulla folle dimensione regionale al Senato. I collegi erano dati per morti; averli resuscitati, almeno per un terzo, fa ben sperare sulla possibilità di riespanderli ancora di più.
È una legge ancora provvisoria, che consente però una battaglia politica per migliorarla, insieme al dovere di riproporre in forme diverse l’aggiornamento costituzionale. Non chiude, ma apre, comunque meglio di quanto avrebbero consentito di fare i due spezzoni sopravvissuti alla Corte.
stefano ceccanti dice
Nel prossimo, per l’adozione integrale del sistema francese
Alberto Pellegri dice
La presunta provvisorietà(?) della legge evoca una battaglia politica in questo parlamento che ritengo improbabile o vana perchè la legge non è frutto di considerazioni etiche o di rispetto degli elettori bensì di tornaconto di bottega quando non di ostracismi.
Danilo Breschi dice
Battaglia nella prossima legislatura, semmai. Nel parlamento, ma soprattutto all’esterno. Dibattito politico-costituzionale che potrebbe (dovrebbe?) sfociare in proposte referendarie di emendamento/correzione alla legge elettorale ora vigente.
Il buon funzionamento del sistema per l’elezione/selezione dei sindaci deve indurre a confidare ancora nell’efficacia e utilità , pur parziale, di determinate leggi elettorali rispetto ad altre.