Kalòs géron, il grande vecchio (Omero) o l’impietoso decadimento? Rispetto e venerazione o abbandono e morte? Già tra gli stessi popoli primitivi non riscontriamo univocità riguardo il destino dei vecchi. Per talune tribù aborigene dell’Australia ad.es. la parola vecchio significava super-uomo; pertanto quanto più l’uomo invecchiava tanto più cresceva in autorità, onori e privilegi. Nell’altro caso, invece, i vecchi venivano isolati, abbandonati o uccisi. Le ragioni nascevano – e qui le analogie con l’oggi appaiono preoccupanti – dalla scarsità del cibo (troppe spese per la Sanità Pubblica), dalla inabilità alla caccia, alla guerra e alle crescenti difficoltà della vita (essere di peso e non più autonomi); di qui, sovente, nell’attesa del destino imposto, la decisione di togliersi spontaneamente la vita (Levy-Bruhl, L’âme primitive).
Dobbiamo, io credo, reimparare a conoscere e non calpestare la vecchiaia, perché età del raccolto, non sinonimo di malattia. La veste nera della malattia, non dimentichiamolo, purtroppo, non fa distinzioni di età.
Ma per un buon raccolto è necessaria una buona semina, avendo saputo far tesoro di quella ricchezza che né il denaro, né la posizione sociale compra o garantisce: gli affetti. Quante solitudini vengono ingiustamente imputate alla vecchiaia e non all’aridità e all’egoismo di vite spese unicamente nell’arrivistico narcisismo egotista. In tal caso, la fine è nota perché, come Max Weber ben ricordava, il funzionario una volta dismesso dalla sua funzione, alla lettera è: de-funto.
Ora certamente il progressivo dominio della funzione sull’uomo, il predominio prepotente dell’avere sull’essere (Fromm), della compulsiva avidità ed ingordigia del comprare sul godere, la lenta, surrettizia, inesorabile dissoluzione di ogni legame stabile (famiglia) in nome di una favolistica autorealizzazione nell’autonomia e nella ‘libertà’ che tanto piacciono al mercato che ne diviene vessillifero (il mercato necessita di pedine, non di uomini, tanto meno di persone), sono tutti i perfetti ingredienti per confezionarsi di poi una vecchiaia abitata da rimpianti, rancori e solitudine. Del resto citiamo pure il Senectus ipsa morbus, di Seneca, ma non trascuriamone l’invito a non perdere il sorriso della comprensione per le intemperanze, sì le intemperanze – ogni età ha le sue e la vecchiaia non fa eccezione – di questa età. Inoltre, se leggiamo con attenzione Seneca non possiamo non renderci conto che il De Senectute non si legge senza ciò che ne rappresenta il presupposto, De brevitate vitae, ove potente è il monito a non gettar via i propri anni perché, come dicevano le nonne, nella loro serenità «ogni età ha la sua primavera».
La vecchiaia è il raggiungimento della sicurezza della maturità, l’inizio di quella linea che, tracciando il confine della nostra compiutezza, si apre alla fecondità creativa della riflessione, mentre, senza dubbio, anche se impercettibilmente, ci avvicina all’orlo del sacrificio. Tutti noi cominciamo ad intravedere questo spazio, chi nella forma dell’ineluttabile, chi in quella del dolore. Ci rimane quell’antichissima invocazione che nostri lontani fratelli elevavano alle loro divinità: non permettere che il nulla si appropri di noi. La vita si realizza nello spazio ‘in chiaro’, tra la nebulosa del prima e del dopo, in cui – se qualcosa esiste – è atto di fede crederci. E se non esiste lo è altrettanto.
P.S. La vecchiaia arriva quando il costo delle candeline supera quello della torta! (Bob Hope)
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