In questi mesi si parla tanto, forse fin troppo, di «post-verità». Sarà il fatto che l’Oxford Dictionary ha decretato che quest’espressione è la parola dell’anno; sarà che essa viene collegata a ciò che accadendo nella comunicazione politica di mezzo mondo: in ogni caso questo termine è ormai di moda. E tuttavia, come per molti vocaboli alla moda, non sappiamo bene che cosa esso voglia dire, nonostante gli interventi più o meno dotti che si moltiplicano sull’argomento (e ai quali si aggiunge adesso anche il mio).
Cominciamo con il chiarirci un po’ le idee. Se la post-verità è qualcosa che viene ‘dopo’, che è ‘oltre’, la verità, dobbiamo chiederci anzitutto che cosa significa questa parola, la parola ‘verità’. Lungi dal rifiutarci di rispondere a questa domanda, come fa Gesù davanti a Pilato, possiamo azzardarci a distinguere alcuni modi in cui il termine viene usato e che si ripropongono nella storia del pensiero. C’è la concezione – a cui in questa storia fanno riferimento, sia pure in modi diversi, Aristotele, Tommaso d’Aquino e Tarski, e che è ben radicata anche nel senso comune – di una ‘verità’ intesa come ‘corrispondenza’: corrispondenza fra ciò uno pensa e ciò che in realtà è, o fra ciò che uno dice e ciò che in realtà è. C’è poi l’idea – riportata a nuova vita nel Novecento da Heidegger, con riferimento al mondo greco, ma ben presente anche nella tradizione ebraico-cristiana – della ‘verità’ come ‘rivelazione’, ‘manifestazione’, ‘disvelamento’ di qualcosa: un rivelarsi che, comunque, ha bisogno di una narrazione per essere attuato nel concreto. C’è, ancora, la persuasione che non può esserci ‘verità’ senza coinvolgimento in prima persona. In questo caso la corrispondenza si dà fra ciò che penso e ciò che dico, e più che di ‘verità’ è bene parlare di ‘veridicità’.
Questi sono alcuni dei significati della parola, probabilmente i più influenti. Se le cose stanno così, allora, a quale significato di ‘verità’, o a quali significati, si riferisce l’espressione ‘post-verità’? Al di là di quale accezione, più in dettaglio, veniamo condotti dalla capacità manipolatrice dei mezzi di comunicazione, usati spregiudicatamente?
A un primo sguardo, la risposta sembra scontata: ciò che si oltrepassa, ciò a cui si rinuncia, è la corrispondenza fra ciò che viene detto e la realtà dei fatti. I giornalisti, i comunicatori politici, addirittura i comunicatori pubblici non hanno oggi più la realtà come punto di riferimento dei loro discorsi, né c’è più rispetto da parte loro nei confronti delle cose o del pubblico che sulle cose dev’essere informato. Fin troppo spesso chi fa comunicazione costruisce i propri racconti e delinea scenari persuasivi senza preoccuparsi della loro verifica.
Perché questa preoccupazione oggi non è più un problema? Perché in effetti – per usare un’espressione di Baudrillard – la realtà è ‘scomparsa’. È scomparsa nel rifrangersi delle tante opinioni che su di essa possono venir espresse. È scomparsa nell’overdose di notizie che su di essa dovrebbero vertere, e che invece finiscono per annientarla. È scomparsa grazie al fatto che oggi c’è confusione, si percepisce un’indifferenza tra ciò che viviamo nella realtà quotidiana e ciò che sperimentiamo grazie all’uso delle nuove tecnologie. La realtà, infatti, è ormai virtualizzata.
Se le cose stanno così, se viviamo ormai nell’indifferenza di virtuale e reale, non c’è da stupirsi se l’idea di ‘verità’ come corrispondenza è abbandonata a favore di un concetto di ‘verità’ come narrazione. Si tratta di un racconto capace di plasmare la realtà a proprio uso e consumo: di solito l’uso e consumo di chi ha il potere d’imporre le proprie tesi grazie ai mezzi di comunicazione, che ne offrono la cassa di risonanza. Sulle cose prevalgono dunque le storie. Torna la ‘verità’ intesa come rivelazione di ciò che la gente deve pensare e a cui, in mancanza di verifica, può solamente credere: almeno fino a quando un’esperienza particolarmente dura non costringe a mettere di nuovo i piedi per terra.
In questo quadro che fine fa l’ultima accezione di ‘verità’ che prima ho menzionato, quella della corrispondenza fra ciò che penso e ciò che dico, cioè l’idea della ‘veridicità’? A ben vedere, chi mette in opera questo modo di concepire il vero s’impegna e rischia molto. Chiede fiducia: non solo rispetto a quello che dice o fa, ma anzitutto per quello che è. Tale fiducia, d’altronde, può essere riposta solo in chi la merita. E la merita solo chi supera la prova della verifica: la verifica rispetto al fatto che veramente è in grado di fare e che fa ciò che dice (o che promette).
Il problema è che, oggi, per lo più nessuno vuole rischiare di sottoporsi a questa prova. Per lo più vuole la fiducia degli altri senza mettersi davvero in gioco. E così, per ottenere questo risultato, uno – di solito l’aspirante leader – si presenta come il custode della mentalità comune, cioè come colui che davvero è interprete delle aspettative della maggioranza, preventivamente definite attraverso inchieste e sondaggi. A questo punto, paradossalmente, s’impone di nuovo l’idea della ‘verità’ come corrispondenza. Ma non nei confronti della realtà delle cose, bensì rispetto a ciò che la gente si aspetta. È in gioco qui, più precisamente, un differimento della corrispondenza: ciò appunto che esonera dalla verifica, rinviandola a un futuro indeterminato.
Ho fatto discorsi generali, apparentemente astratti. Non si farà fatica, però, a riconoscere i riferimenti precisi, nel panorama politico internazionale e nostrano, ai quali pensavo. È il piccolo esercizio che chiedo al lettore di questo post. Augurandomi comunque che, se l’aggancio a una realtà chiaramente strutturata è oggi sempre più difficile, almeno il criterio della veridicità possa essere considerato imprescindibile, e su di esso prima o poi si eserciti una verifica spietata.
Dino Cofrancesco dice
Un articolo chiaro e utile. Mi chiedo se la post-verità non sia il punto di approdo di una storiografia (v., ad es., il tanto esaltato G. Mosse e i suoi allievi italiani)che da tempo non fa più storia delle cose ma delle percezioni che si hanno delle cose(e per questo ha relegato in soffitta i Gioacchino Volpe, i Rosario Romeo etc.)
Adriano Fabris dice
E’ proprio vero. E anche ai giornalisti, e non solo agli storici, bisogna chiedere se essi ritengono che le persone che li leggono vogliano sapere soprattutto i fatti, oppure solamente ciò che loro pensano sui fatti…