1. «Oikonomiké», termine coniato da Aristotele, non è un sostantivo nella lingua greca, ma un aggettivo. La traduzione corretta, pertanto, non è «economia», ma «economico». Nella filosofia aristotelica, i sostantivi esprimono entità o essenti, cioè sostanze; gli aggettivi invece esprimono accidenti, qualcosa cioè che esiste solo in altro, in qualcosa. Che tipo di accidente è, per la cultura greca, l’economico e quale è la natura di ciò cui inerisce? La polis, intesa quale luogo dove si realizza la fioritura umana, l’eudaimonia, appunto! L’azione economica trova dunque il suo fondamento ontologico nella ricerca della pubblica felicità.
Questa sistematizzazione concettuale resta basicamente inalterata, sia pure con una pluralità di varianti, fino al secolo XVII, quando, con l’avvento del pensiero economico mercantilista, inizia a prendere piede, con Antoyne de Montchretien (1615) l’espressione «economia politica». Da aggettivo, l’«oikonomiké» diventa sostantivo! È così che nasce la nuova disciplina dell’economia come «scienza dell’acquisizione». Prima di allora, fino alla seconda Scolastica (la scuola di Salamanca) le tematiche economiche non sono trattate come materia a sé, ma solo in quanto sollevano interrogativi di natura filosofica o teologica.
La successiva scuola di pensiero classica, quale si sviluppa a partire dalla Gran Bretagna tra seconda metà del Settecento e primi decenni dell’Ottocento spinge ancora più in avanti la nuova sistemazione concettuale, coniando l’espressione «political economy», cioè «economia politica». L’originario cordone ombelicale con la filosofia non viene però reciso, stante che lo scozzese Adam Smith – il ‘padre dell’economia politica’ – aveva la cattedra di filosofia morale e pure gli altri autorevoli componenti della scuola ne sapevano di filosofia – basti pensare a John Stuart Mill. Quando si arriva al 1829, si registra una clamorosa, e per certi versi inaspettata, inversione di tendenza. Nell’occasione della lezione inaugurale dell’anno accademico, il cattedratico di economia di Oxford e vescovo della Chiesa Anglicana, Richard Whateley pronuncia un discorso rimasto celebre nel corso del quale enuncia (e difende) il principio del NOMA (Non – overlapping Magisteria) – come in seguito sarebbe stato chiamato. Secondo tale principio, se l’economia vuole ambire ad acquisire lo statuto di disciplina scientifica (positivisticamente intesa) deve recidere ogni collegamento con la sfera dell’etica e con quella della politica. Donde la celebre divisione di ruoli: l’etica è il regno dei valori; la politica, il regno dei fini, l’economia, il regno dei mezzi. Se dunque all’economista si chiede di ricercare i mezzi più efficienti ed efficaci per conseguire i fini, eticamente ammissibili, dettati dalla politica, che bisogno c’è che questi si occupi di intrattenere rapporti di buon vicinato con le altre due discipline?
Alcuni decenni dovettero passare prima che il NOMA entrasse nel mainstream economico. La sistematizzazione si completa nel 1879 quando il celebre Alfred Marshall, introdurrà il termine «economics» cioè economica tout court, al posto di «political economy». Interessante la motivazione che ne dà il Cantabrigense: «Un tempo si usava chiamare la nazione ‘il corpo politico’. Finché questa locuzione fu di uso comune, il pensiero della gente quando si usava il termine ‘economia politica’ serviva abbastanza bene ad indicare la nostra scienza. Ma oggi con ‘interessi politici’ si intendono gli interessi di una sola parte, per cui sembra preferibile abbandonare il termine ‘economia politica’ e parlare semplicemente di economica» (p.12).
2. Nonostante alcune voci dissonanti – notevole tra i contemporanei quella di Amartya Sen e di non molti altri ancora – l’idea secondo cui la disciplina debba considerarsi separata – beninteso, non già autonoma il che sarebbe ovvio – dall’etica è rimasta una costante del modo di fare ricerca economica. Si è così passati dal privilegiare il rapporto con la ragion teoretica – la filosofia, appunto – all’alleanza dell’economia con la ragion tecnica. Con il che il pensiero pensante ha ceduto il passo al pensiero calcolante. Eppure, la storia e la filosofia della scienza del XX secolo hanno mostrato, ad abundantiam, che tutte le scienze, anche quelle più ‘esatte’ presentano un ineludibile contenuto ideologico e una intrinseca dimensione filosofica.
Le conseguenze di questo autoimposto riduzionismo non hanno tardato a manifestarsi. Il discorso economico ha certamente accresciuto, e di tanto, il suo apparato tecnico-analitico, ma esso non pare in grado di fare presa sulla realtà. Si pensi a problemi cruciali quali l’aumento endemico delle disuguaglianze sociali; lo scandalo della fame nell’epoca dell’abbondanza; l’irrompere dei conflitti identitari; la sostenibilità della biosfera; i paradossi della felicità. E altri ancora. Vano (e anche irresponsabile) sarebbe pensare di riuscire a risolvere problemi del genere ancorandosi alla tecnica, che tuttavia rimane necessaria. La ragione è che nell’attuale passaggio d’epoca, la tecnica non ha molto da offrire al discorso economico, perché essa è bensì capace di suggerire risposte, ma non di porre le domande appropriate, prima fra tutte, la domanda sull’uomo. La via della separazione imboccata dalla scienza economica ha finito così col disarmare il pensiero critico, con le conseguenze che ora sono sotto gli occhi di tutti. Aver creduto che il rigore scientifico postulasse l’asetticità e che una ricerca per essere giudicata scientifica dovesse liberarsi da ogni riferimento di valore ha finito col far accettare l’individualismo libertario come un assunto pre-analitico che, in quanto tale, non abbisognerebbe di giustificazione alcuna. Mentre sappiamo che è esso stesso un giudizio di valore e pure pesante. Affermare che il bene è ciò che l’individuo giudica tale è il più forte dei giudizi di valore; eppure non si ritiene di doverlo sottoporre al vaglio della ragion teoretica.
Da qualche tempo, però, si va registrando un interesse crescente degli economisti nei confronti del problema riguardante il presupposto antropologico del discorso economico, un discorso che risulta tuttora dominato, per un verso, da una concezione alquanto limitata sia del benessere personale sia del bene della civitas, e, per l’altro verso, dalla incapacità di riconoscere a livello della teoria il fatto che nell’uomo vi sono sentimenti morali – ovvero disposizioni che vanno ben oltre la ricerca dell’interesse personale. Questa sorta di risveglio trae origine da un duplice insieme di fattori. Da un lato, la presa d’atto che una comprensione non illusoria dell’odierna realtà economica esige il superamento del carattere riduzionista di gran parte della scienza economica contemporanea. La quale, proprio perché costruita su una visione distorta dell’azione umana e del sistema motivazionale che ne è alla base, non è in grado di fare presa sui nuovi problemi che intrigano le nostre società.
Dall’altro lato, v’è la consapevolezza del fatto che il riduzionismo di cui sta soffrendo la ricerca in economia rappresenta il principale ostacolo all’ingresso nella disciplina di nuove idee e di nuovi approcci. Esso, infatti, costituisce una pericolosa forma di protezionismo nei confronti non solo della critica che sale dai fatti, ma anche di tutto ciò che di innovativo proviene dalle altre scienze sociali. La tendenza in atto è assimilabile a una sorta di migrazione intellettuale. E come gran parte delle migrazioni, questa ha radici in fattori sia di spinta che di traino; vale a dire ha radici nella insoddisfazione nei confronti del modo dominante di fare teoria economica e nella speranza che un orizzonte più vasto possa rendere la disciplina all’altezza delle sfide in atto. Va da sé che l’operazione in gioco potrà essere accolta con favore dalla Professione se essa, nel rispetto dei canoni della prassi scientifica, saprà dimostrare di estendere la portata esplicativa della disciplina – e non soltanto di correggerne le tante aporie.
3. La ricerca scientifica implica responsabilità e rischi che, specialmente nelle scienze sociali, rientrano nell’ordine dell’etica e della politica. Oggi nessuno crede più alla possibilità che si possa separare l’‘analisi’ dalle ‘visioni’. Sappiamo infatti che le teorie economiche non sono strumenti neutrali di pura conoscenza. Non sono neutrali, perché i giudizi di fatto non sono separabili dai giudizi di valore, ma esprimono sempre dei punti di vista particolari dietro i quali si nascondono (a volte molto bene) interessi particolari. Non sono di pura conoscenza, perché le idee cambiano la testa della gente e quindi cambiano il mondo. Le teorie del comportamento dell’uomo contribuiscono alla sua costruzione, come ben ci dice la tesi della doppia ermeneutica.
Ecco perché vedo con soddisfazione certi sviluppi della scienza economica contemporanea. Non sappiamo ancora qual è il luogo verso cui ci condurrà la silenziosa rivoluzione scientifica cui stiamo assistendo. Ma sappiamo qual è quello da cui ci si sta allontanando. L’economia mai potrà avere un’esistenza utile separata dall’etica, sempre che voglia continuare a riconoscere a se stessa la capacità sia di interpretare la realtà sia di concorrere a modificarla. Se invece la preoccupazione dell’economista è semplicemente quella di costruire una macchina logica che consenta di misurare gli effetti di ogni data decisione economica su una data collettività, allora per uno scopo del genere il connubio tra economia e scienze matematiche e econometriche basta, e avanza. Sono dell’idea che nell’attuale fase storica il pendolo di Foucault stia tornando a privilegiare il rapporto tra economia e filosofia, proprio per la ragione sopra esposta. Mi spiego così la vigorosa recente ripresa di interesse in economia sui temi dell’etica e della responsabilità.
Come concretamente debba svolgersi il dialogo tra economisti e filosofi morali è la grande questione che è ben lungi dall’essere, non dico risolta, ma addirittura impostata. L’urgenza di giungere ad una architettura teorica in grado di affrontare in modo unitario, e utile per entrambe le discipline, temi di comune interesse è avvertita con preoccupazione crescente dagli uni e dagli altri. C’è consenso su ciò che non si vuole: la mera giustapposizione di categorie e linguaggi e tanto meno la subordinazione di marca imperialistica dell’una all’altra disciplina. Non si conosce però ancora come muovere passi sicuri verso la costruzione di quella architettura teorica comune. Occorre cominciare a cercare davvero. È in ciò il senso ultimo dello straordinario evento dell’Economia di Francesco.
Maurizio Franca dice
Dalla pubblicazione del libro I Limiti dello Sviluppo sono passati 47 anni e abbiamo continuato ad ignorare tutti i segnali. Il modello della crescita infinita ha continuato ad essere insegnato come la verità assoluta e qualsiasi critica ferocemente ignorata.
Adesso è arrivato il momento di pagare il conto e chi ha le competenze per farlo deve impegnarsi per la costruzione di un soggetto politico capace di avviare la transizione necessaria per un nuovo paradigma culturale di riferimento.
Vista l’utopistico obiettivo occorre abbandonare ogni pretesa superiorità intellettuale, ogni passato dissidio personale, per dedicarsi a costruire una comunità di competenze capace di elaborare una visione che illumini la fine del tunnel in cui ci troviamo.
Per la nostra società che ha goduto di tanti privilegi non sarà indolore, ma semplicemente necessario e alla fine liberatorio da una schiavitù del possesso che ci ha tolto ogni senso di umanità.
Un abbraccio unisca tutte le persone di buona volontà.
Dino Cofrancesco dice
«Oggi nessuno crede più alla possibilità che si possa separare l’‘analisi’ dalle ‘visioni’.» Non sono un economista e non conosco gli «sviluppi della scienza economica contemporanea» che tanto esaltano Zamagni. Credo, però, di poter dire che la fine del non cognitivismo etico–la separazione dei giudizi di fatto dai giudizi di valore–sia la campana a morte della civiltà liberale. Le civiltà, è vero, non sono eterne come ricordava Paul Valéry e quella liberale meritava forse di togliere il disturbo ma delle implicazioni etico-politiche di certe affermazioni si deve avere chiara coscienza.
dino@dinocofrancesco.it
Francesco D’ Agostino dice
Il non-cognitivismo etico è filosoficamente fragilissimo: ignora l’abc dell’ermeneutica, della psicologia, della stessa etica. La campana a morte della civiltà liberale è stata segnata non dalla fine del non-cognitivismo etico, ma dalla sua ingenua accettazione. I “giudizi di fatto” non esistono, perché colui che “giudica” non è una macchina, ma un essere umano calato nella storia e in innumerevoli rete relazionali.
Dino Cofrancesco dice
Ha ragione l’amico Francesco, ciò che è buono è anche vero e, perché no?, bello, anzi bellissimo…