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Via le tombe dal Pantheon! Considerazioni di un estimatore di Casa Savoia

15 Gennaio 2018 di Dino Cofrancesco 1 commento

Una sera del 1871, ricorda Federico Chabod nel suo capolavoro Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 (1951), il grande romanista tedesco Theodor Mommsen, rivolgeva a Quintino Sella un «concitato richiamo»: «Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti: a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti. Che cosa intendete di fare?».

 L’Urbe era la sede di un’Autorità spirituale planetaria: cosa poteva contrapporre ad essa il povero Regno d’Italia nato dieci anni prima e riguardato con sospetto dalle potenze cattoliche? La classe dirigente, nondimeno, accettò la sfida e specialmente con la Sinistra storica, fatta di ex mazziniani, mostrò di voler dare vita alla Terza Roma. La gloria dei Papi aveva il suo simbolo nella Basilica di San Pietro; la gloria dei Re d’Italia doveva risplendere nel più imponente monumento della romanità, il Pantheon eretto da Marco Vipsanio Agrippa nel 27 a.C., per volontà di Augusto – e poi modificato da Adriano tra il 120 e il 124 dopo i devastanti incendi dell’80 e del 110 d.C. ‘Tempio di tutti gli dei’ – c’era una nicchia anche per qualche divinità ancora ignota – l’edificio era l’espressione più alta e solare della classicità pagana e del suo spirito aperto e tollerante. Furono i pontefici a trasformarlo, deturpandolo, in una chiesa cristiana: i lavori che Papa Barberini, Urbano VIII, affidò a Carlo Maderno – e che si protrassero fino al 1632 – ispirarono la famosa pasquinata: «quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini». Nella basilica cristiana – Sancta Maria ad Martyres – vennero sepolti i pittori Raffaello Sanzio, Annibale Carracci, l’architetto Baldassare Peruzzi, il musicista Arcangelo Corelli. L’aura classica era andata perduta ma non del tutto se si considera che le architetture romane conservavano ancora qualcosa del severo chiarore pagano. Tutto cambiò, invece, quando il lombardo Agostino Depretis e il siciliano Francesco Crispi, nel 1878, incuranti del legittimo desiderio del Re Galantuomo di venir sepolto nella Basilica della Superga accanto ai suoi avi, diedero fondo alla loro megalomania stabilendo che i Savoia sarebbero stati inumati al Pantheon. Fu allora che il volto del Pantheon, pur non perdendo del tutto il suo fascino, si riempì di lugubri manufatti cimiteriali – le tombe di Vittorio Emanuele II, di Umberto I e della consorte Margherita.

È qui che alcuni vorrebbero ora portare le salme di Vittorio Emanuele III e di Umberto II e delle rispettive mogli, sollevando il nuovo, immancabile, tormentone antifascista, che diventa ancor più stridulo sotto elezioni. Sì, certo, il piccolo Re si è macchiato di colpe imperdonabili costate la vita all’istituto monarchico: ha violato lo Statuto albertino, non per aver conferito l’incarico di governo a Mussolini, ma per aver permesso al fascismo di sopprimere la libertà politica; ha sottoscritto le leggi razziali, non si è opposto all’Asse Roma/Berlino, ha destituito il Duce ma solo dopo che i fascisti monarchici lo avevano messo in minoranza. Ma soprattutto Vittorio Emanuele III, con la sua debolezza, è riuscito a mettere in ombra le benemerenze storiche di Casa Savoia. Immemori come sono, gli Italiani sembrano non ricordare che grazie al Re galantuomo, al suo esercito, alla sua straordinaria classe politica – da Cavour a Ricasoli a Minghetti – l’Italia si ricongiunse all’Europa vivente e in pochi anni riuscì, pur fra mille contraddizioni, a recuperare un ritardo di secoli.

«Il complice del fascismo non può stare al Pantheon!». Giusto, sottoscrivo anch’io ma a patto di ricordare quanto dobbiamo alla dinastia sabauda. Se ne onori la memoria rendendo omaggio ai suoi principi non nell’imperiale, lugubre, Pantheon ma nel bellissimo Santuario di Vicoforte e nella suggestiva Basilica di Superga che dalla collina torinese veglia sull’antica capitale d’Italia.

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Commenti

  1. Francesco D'Agostino dice

    26 Gennaio 2018 alle 10:23

    Non sono d’accordo con l'”estimatore di Casa Savoia”. Non è per merito del “re galantuomo”, del “suo esercito” e della sua “straordinaria classe politica” (faccio eccezione ovviamente per Cavour, che aveva però in mente un progetto di unificazione diverso da quello che poi si è realizzato) che l’Italia si è ricongiunta all’ “Europa vivente”, ma, militarmente, per merito dei francesi (Solferino!) , e degli inglesi che appoggiarono i garibaldini. Poi anche per merito dei prussiani (Sadowa). Ideologicamente i Savoia non contribuirono all’unità, ma all’espansione del loro regno (Vittorio Emanuele volle restare “II”): fu per merito di Mazzini (che perfino l’Italia monarchica fu costretta a omaggiare) che si diffuse nel paese l’ideologia unitaria.
    Anche come persone i Savoia,re d’Italia, non spiccano in alcun modo (come peraltro la maggior parte dei loro antenati). Vittorio Emanuele apparve alla Regina Vittoria grossolano, ignorante dell’etichetta (di certo a tavola, ma probabilmente per anche carenze igieniche) e tutto sommato irricevibile; di Umberto è meglio non parlare tanto la sua figura è scialba e gravata da responsabilità politiche; di Vittorio Emanuele III e della sua discendenza è superfluo parlare. Insomma, dobbiamo davvero onorare la memoria dei Savoia?

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