L’antropologia culturale non ha ancora conosciuto, in qualsivoglia latitudine del globo terracqueo, gruppi di umani che si caratterizzino per versare all’erario i loro oboli fiscali con entusiasmo e larghi sorrisi sulla faccia. Non è così nei paesi invasi dal sole né in quelli circondati da boschi e tundre, nei quadranti infreddoliti del mondo e in quelli temperati dove la primavera è perpetua e tutti si sentono più buoni. Come l’Italia (…). Stesso sentiment dappertutto, dunque, nel Mediterraneo e nella mitologica (fiscalmente parlando) Scandinavia.
Il perché si spiega con un po’ di psicologia da strada: ogni essere umano, messo davanti alla scelta se gli faccia più dispiacere vedersi sottrarre cento euro che ha già in tasca piuttosto che rinunciare ai soldoni che arriveranno ma che fisicamente ancora non ci sono, non avrà dubbi nel dichiarare la sua massima sofferenza per il distacco da ciò che è già suo. Per questo le tasse sono istintualmente viste male, come un prelievo a tradimento di ciò che è nostro e ci viene sottratto con la forza dall’autorità statale, che le esige come pagamento delle sue prestazioni.
Intendiamoci: quando le prestazioni sono efficienti, non è che il dolore del distacco diminuisca, ma, almeno, il contribuente resta con meno argomenti da agitare col suo ius murmurandi. Ma se, poi, la qualità dei servizi è pure scarsa, allora veramente è dura da mandare giù: pagare la TARI e vedere le strade inondate d’immondizia è un insulto decisamente insopportabile. E forse anche a ragione. Insomma, appena può, chi può a tutte le latitudini fa emigrare i suoi soldi o li nasconde.
Molto interessante è la classifica dei primi cinque paesi europei per esportazione di danari all’estero: al primo posto l’insospettabile Germania, con 331 miliardi di euro, pari al 13% del PIL; al secondo i cugini (loro) francesi, con 288 mld, pari al 10%; al terzo gli ex UE inglesi, con 218 mld, pari all’8% della loro ricchezza, percentuale simile a quella italiana, (8,1%), che si colloca al quarto posto (141 mld verso i paradisi). Chiude l’alta classifica la Spagna, con 95 miliardi di euro, pari al suo 8,8% di PIL. La media dell’export di danari verso regimi fiscali accoglienti, più o meno paradisiaci, è di 28 miliardi.
Dunque, come in quella telenovela degli anni ’80, in tutta Europa i ricchi, appena possibile, piangono e per consolarsi mettono i soldi in valigia e partono. Allora, assodato che il sentimento umano è pochissimo proclive a fare sorrisetti empatici alle Agenzie delle Entrate, diventa interessante capire come si affronta il problema per recuperare il carburante necessario a far funzionare lo Stato.
C’è una parte di cittadini celebrati come virtuosi perché non c’è prova contraria. Sono i funzionari pubblici e tutti i lavoratori che ricevono una busta-paga, virtuosi per necessità perché il passaggio di danari è documentato. Si tratta del 13,07% della popolazione, circa 8,2 milioni di contribuenti, sui cui fragili omeri pesa quasi il 60% dell’imposizione fiscale, mentre 44% circa della popolazione, sostiene non più del 2,44% dell’IRPEF. A questi valorosi cittadini, infatti, è affidato il compito di finanziare sanità, istruzione, trasporti, previdenza, sicurezza, eccetera. Si tratta di poco più della metà degli italiani.
Dell’altra metà o poco meno nessun segno di vita. Ogni anno a partire dal 2016 le autorità fiscali italiane ci danno cifre sull’evasione. È il MEF a pubblicare un rapporto sull’Economia non osservata e sull’evasione fiscale. Secondo l’ultimo rapporto completo, non recentissimo, mancherebbero all’appello non meno di 108 miliardi di euro: più della metà del recovery fund. L’effetto è devastante perché non solo l’imposizione fiscale cresce in modo esponenziale (al 42,4% del PIL), ma anche perché va a colpire solo una parte degli obbligati, facendo saltare ogni principio di solidarietà e condivisione degli oneri scolpiti in Costituzione. E così non ce la si fa.
Nel mondo si affronta il problema con vari strumenti. C’è chi come i tedeschi e gli americani spingono il pedale sull’inasprimento delle pene e sullo spauracchio della carcerazione: negli USA (e chi non ha visto almeno uno dei cinque film – l’ultimo del 2020 – con Al Capone in gattabuia non per i suoi efferati omicidi ma per evasione fiscale?) 12.000 persone sono in carcere per evasione fiscale, in Germania 8.600 (in Italia solo 156).
C’è chi (16 paesi europei) fa ricorso al ludibrio universale, con la pubblicazione dei nomi dei reprobi – il cosiddetto name shame – nel presupposto che la cosa rovini la reputazione della persona esposta (in Italia funzionerebbe?). C’è chi, proposta ripescata di quanto in quanto anche da ambienti politici italiani, farebbe volentieri ricorso alla imposta aggiuntiva sul patrimonio, che, lanciata così, ha solo l’effetto di far volare via, oltre le frontiere nazionali, valige di danari.
E poi c’è il comportamento virtuoso attraverso il contrasto d’interessi che può far ricorso all’aiuto delle tecnologie digitali. Uso di carte di credito, certo, ma, soprattutto, convergenza di tecnologie per promuovere benefici al contribuente, modello farmacia, dove ogni acquisto finisce nel castelletto del 19% scaricabile dal cittadino.
La riforma fiscale, evergreen dei governi italiani da sempre, deve trovare la sua bussola nella trasparenza, nella semplificazione, nel minor aggravio. Nell’abbattimento di un feticcio malvagio, un fisco-orco che digrigna i denti nei confronti del cittadino sulle cui spalle grava l’onere di dimostrare che non è un membro dei clan colombiani in missione estera.
La via è una sola: una riforma in grado di indurre al comportamento virtuoso attraverso meccanismi di ‘contrasto d’interessi’, capace di consentire al contribuente la deduzione delle spese impegnate per il ménage familiare, avendone non solo benefici fiscali, ma anche altre forme di recupero, per esempio previdenziale (in questo caso parleremo di ‘accordo di interessi’). Una riforma così è induttrice di virtù se ogni transazione, dalla più piccola alla più grande, diventa deducibile.
In questo modo si incoraggia una catena di comportamenti ispirati da una onestà necessaria (la deducibilità è il motore della virtù), piuttosto che perpetuare il regime inquisitorio (ma non premiale) del nostro ordinamento fiscale. Perché, l’abbiamo assodato, già il pagamento delle tasse di per sé non è un gesto che si compie con entusiasmo. Se poi non ci mettiamo un incentivo è proprio finita.
enzo de biasi dice
La progressività delle imposte a 70 anni data dal principio costituzionale è applicata quasi esclusivamente al reddito da lavoro/pensione. La delusione è che ancora oggi (leggasi scheda PNRR e riforma fiscale in itinere) tutto sarà concentrato su di una rimodulazione dei scaglioni di reddito IRPEF, ben sapendo che la quasi totalità del lavoro autonomo dichiara mediamente sotto i 29.000,00 € lordi annui. Ho apprezzato la sua risposta agli interrogativi da me posti, ma concordo in parte. Negli altri Paesi, specie quelli del Nord Europa, è vero che la legislazione è più agevole e chiara, ma s’innesta in una cultura civile e civica che in Italia semplicemente non è mai esistita e non c’è. Ci sarà mai ?
enzo de biasi dice
Letto quanto soprascritto, ma il senso di appartenenza ad una comunità ? Non è di questo mondo ?
Pino Pisicchio dice
Naturalmente esistono anche le esperienze meravigliose della solidarietà, del volontariato, delle organizzazioni umanitarie, ringraziando il Cielo. Quel che dice l’articolo, magari porgendo il ragionamento con un “di più” di ironia, è che non esistono in assoluto “popoli virtuosi” o popoli vocati all’evasione fiscale, se la virtù non viene incoraggiata da leggi adeguate e strutture pubbliche funzionanti.
Marta Regalia dice
Il problema delle tasse (e della conseguente evasione) è annoso e doloroso. La soluzione che propone è forse l’unica possibile.
Mi chiedo però se non sia possibile invertire l’onere della prova: invece di tassare indistintamente i beni (mobili e immobili) anche a chi li ha già pagati, (strapagati e stratassati), che è poi quello che si fa indirettamente con l’ISEE, non sarebbe possibile domandare a chi ha sempre dichiarato redditi infinitesimali da dove sono arrivate le risorse per eventuali beni non spiegabili con le suddette dichiarazioni? Eredità, donazioni, vincite, sono tutte fonti di entrate lecite e facilmente dimostrabili.
Anche perché, vorrei aggiungere, l’attuale sistema con ISEE fa acqua da tutte le parti, ma questa è un’altra storia…
Pino Pisicchio dice
Concordo con il Suo commento. Come ho cercato di argomentare, trovo profondamente ingiusto che il peso gravi solo su una parte degli obbligati solo perché è più facile colpirli. L’art.53 della nostra Costituzione dice ben altro.
Pino Pisicchio dice
Concordo con la sua valutazione.