L’informazione in rete si mostra sempre più attraverso il suo aspetto visivo, ma non si tratta semplicemente di una visualità fondata su pixel, ma di dati che vengono immessi nel web assumendo in poco tempo una notevole esposizione, e, dunque, popolarità.
La presunta ‘trasparenza’ di tali dati e la facilità e velocità della loro propagazione non sempre produce effetti positivi, e non sempre, soprattutto, volontariamente. Gli individui dunque che si approcciano a immettere contenuti online oltre a orchestrare le informazioni sulla base dei nuovi studi di visual management per una gestione visiva efficace di dati, debbono porre attenzione alle conseguenze che certe scelte comunicative possono dischiudere. Tutti gli individui interessati e tutti i dati che si ha l’intenzione di pubblicare possono essere potenzialmente visibili in tempo reale e da un pubblico tanto ampio quanto più poco identificabile.
Tale libertà di espressione e di esposizione offre, al contempo, due scelte: la messa in atto di forme virtuose di promozione e condivisione dei dati, per l’interesse comune, o, di contro, la possibilità di trascendere in forme degenerative di informazione, sfociando nelle fake news e nei discorsi d’odio o in entrambi contemporaneamente, con evidenti ricadute anche offline. Ma non sempre certe scelte portano alle conseguenze volute: a volte si introducono contenuti veritieri con l’intento di agevolare i soggetti connessi mentre si rischia di arrecare un danno attraverso una loro distorsione, viceversa, a volte si immettono contenuti falsi o offensivi e si apre la porta ad un inaspettato atteggiamento solidaristico.
Nell’ambito di questo contesto i discorsi di odio, in particolare, stanno assumendo una portata sempre più ampia in rete. Si tratta di un fenomeno già tristemente noto nel corso della storia, ma al quale la rete ha fatto da cassa di risonanza. L’hate speech, di cui si inizia a parlare proprio a partire dagli anni novanta del secolo scorso, si estrinseca sempre più come manifestazione discriminatoria e offensiva nei confronti di singoli individui o gruppi sociali, palesando un sentimento di avversione, intolleranza o ostilità. Come arginare un aspetto così pericoloso e, al contempo, molto diffuso in rete?
Al di là del profilare in ambito deontologico e normativo regole chiare per non trascendere in discorsi di odio, come sta avvenendo già in ambito europeo, occorrono ulteriori misure, etiche, che mirino a contrastare l’incitamento all’odio pur non limitando la libertà di espressione dei soggetti. Se certi discorsi sono chiaramente definibili ‘di odio’, numerosi altri appaiono più subdoli, si fondano su pregiudizi spesso incardinati su determinati contesti culturali e immaginari sociali. Ed è proprio su questo terreno, più scivoloso e difficile da monitorare e da scardinare, che deve rivolgersi la nostra attenzione, affinché le parole e le immagini immesse online siano ben ponderate e non lascino spazio a interpretazioni ‘fluide’ e, talvolta, potenzialmente più pericolose. In un contesto comunicativo globale come quello odierno la guerra può farsi anche tramite l’iper-visibilità dei segni. Rammentare che la trasparenza online ab origine tendeva a migliorare la partecipazione democratica all’informazione da parte di tutti i soggetti coinvolti potrebbe spingere a riconsiderare l’importanza dell’originario significato del sostantivo ‘comunicazione’, ovvero la promozione all’intesa – seppur nell’ambito di uno spazio comunicativo complesso fondato su una convergenza mass e cross-mediale. Le parole dunque, proprio perché ‘visibili’, debbono responsabilizzare i soggetti ancora di più nei confronti delle conseguenze di certe azioni comunicative per evitare di scadere in una sorta di analfabetismo emotivo e per invitare, invece, a discernere le fonti autorevoli e accreditate a discapito delle altre.
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