È stato scritto che il processo di integrazione europea, dopo i suoi inizi dovuti alla necessità di superare la cultura del conflitto che aveva distrutto l’Europa e di rispondere alle pressioni americane, ha fatto passi in avanti solo a seguito di crisi. E ciò perché la “sovranità” a cui le nazioni europee si erano abituate nel corso dei secoli da quando erano sorte era ancora considerato l’unico strumento capace di garantire libertà e sicurezza ai cittadini di ciascuna “patria”, anche se poi produceva conflitti devastanti fino alle due guerre mondiali. L’aver adottato un metodo di integrazione per “steps” ha garantito a lungo il bilanciamento tra le nuove sfide e il mantenimento il più a lungo possibile di tutta la “sovranità” che si poteva mantenere. Ma quando la globalizzazione e la finanziarizzazione del mondo hanno accelerato, verso la fine del XX secolo, si è capito che quel metodo non bastava più: il mercato unico dei beni e la moneta unica furono gli “steps” più ambiziosi, che sottrassero per la prima volta una fetta importante di sovranità agli stati nazionali. Ma anch’essi vennero fatti con il freno tirato, cercando di preservare quanta più sovranità possibile nelle mani dei governi nazionali. In particolare, la Banca Centrale Europea venne creata senza strumenti per intervenire nelle crisi e l’euro dovette essere salvato da Mario Draghi che fece approvare gli strumenti tipici delle banche centrali (il MES, l’Unione bancaria, il Quantitative Easing, il Fiscal Compact), nel corso degli strascichi della crisi del 2008, non senza grandi conflitti, perché ogni volta che qualche decisione passava nelle mani di un’istituzione europea si levavano alte grida di “abusi” di potere da parte di varie cancellerie degli stati membri.
Quando arrivò la pandemia, non erano in molti a scommettere sulla capacità della UE di fronteggiarla, in parte perché non c’erano stati precedenti, in parte perché le modalità assai insoddisfacenti di uscita dalla crisi del 2008 avevano lasciato strascichi di risentimenti e avevano ingrossato le file dei sostenitori dei populismi sovranisti antieuropeisti, non solo in Gran Bretagna, che poi finì per uscire dalla UE. Invece la UE ha dato buona prova di sè, perché questa crisi non riguardava i beni materiali, la ricchezza, ma la vita stessa delle persone e c’è stata una forte reazione popolare a mettere la vita al primo posto, riconoscendo che andava salvaguardata con qualunque mezzo. Ci si accorse subito che i virus non si fermano alle frontiere e non infettano solo i poveri e questo è bastato per far scattare quella cooperazione fra stati e fra categorie sociali che era stata da tempo abbandonata a favore di rigide regole anonime. Si è vista nella UE una nuova creatività, volta a mettere in campo misure prima impensabili: dall’acquisto dei vaccini da parte della UE all’attivazione di numerose fonti di credito a bassissimo tasso d’interesse per poter intervenire a sostenere i redditi dei molti che avevano perso il lavoro, dalla sospensione del patto di stabilità (che impediva l’aumento del deficit di bilancio e del debito) alla creazione di un robusto fondo per la ripresa, il NGEU, da cui derivano i vari PNRR, oltre al rafforzamento dei già programmati interventi a favore di una seria transizione verde, per contrastare i cambiamenti climatici. Erano anni che non si vedeva un tale fervore di nuove iniziative comuni.
Quando è scoppiata la guerra di Ucraina, questo approccio unitario è sembrato continuare nell’unanimità dell’appoggio all’Ucraina e nella condivisione delle sanzioni contro l’aggressore, ma poi è scoppiata la crisi energetica (che è al contempo una crisi di quantità e di prezzo) e qui si sono aperte le crepe. Gli stati membri si sono ritrovati in condizioni molto differenziate, con necessità impellenti che alcuni (gli stati meno indebitati) possono affrontare anche con risorse nazionali, mentre altri non possono farlo senza far salire un debito già alto a livelli ritenuti inaccettabili dai mercati internazionali. Ma soprattutto, si è toccato con mano quanto inadeguate fossero state le politiche energetiche della UE, un settore strategico. È sempre stato vero che l’Europa ha dovuto convivere con forti importazioni di materie prime, ma in passato poteva contare sulle colonie e poi su una vasta diversificazione di fonti, mentre in tempi recenti aveva coltivato le relazioni con la Russia, come fonte privilegiata e affidabile di gas, carbone e petrolio, senza riflettere sulle sue implicazioni. Nei prossimi giorni si troverà bensì qualche compromesso sul tetto al prezzo del gas e il “disaccoppiamento” tra prezzi del gas e dell’elettricità, ma diventa sempre più urgente mettere mano all’architettura generale della UE, se non vogliamo sempre inseguire le crisi col fiatone sospeso.
Ci sarà la capacità di fare questo salto in avanti? I padri dell’Unione Europea ebbero il coraggio di innovare in tempi assai più duri, per dare un futuro ai cittadini dei loro paesi. I politici di oggi non sembrano altrettanto lungimiranti, ma quello che maggiormente preoccupa è che non si vede una società civile pronta a dare una forte mano, alzando la voce per qualcosa che vada oltre il costo delle bollette. Se non si cambia approccio alla “sovranità” non c’è futuro per l’Europa.
Alessandro Cavalli dice
D’accordo. Analisi impietosa, ma realistica. Gli stati membri hanno dovuto cedere pezzi di sovranità non per lungimiranza, ma per poter sopravvivere in un mondo ad alta interdipendenza. Ma hanno conservato gelosamente la sovranità fiscale e militare, sia pure appaltando la difesa al grande fratello americano. C’è da chiedersi come mai i partigiani dell’Europa unita non sono mai diventati ne un efficace gruppo di pressione ne un vero movimento sociale. E’ ormai troppo tardi, oppure la crisi attuale offre un’ultima chance ?