Poiché non sono un critico cinematografico né mi ritengo in grado di indicare ricette e analisi universalizzanti di alcun tipo, dichiaro immediatamente il mio personale e pregiudiziale approccio positivo e spesso assai empatico di fronte alla filmografia di Wim Wenders. Da quando poi, anni fa, Enrico Ghezzi propose da par suo su Rai 3, a notte fonda, una serie di film del grande regista giapponese Yasujiro Ozu, riconosciuto da Wenders come suo Maestro, ho amato Wenders ancora di più per la sua forte e rilanciata al presente rivisitazione della eredità di Ozu stesso, della cultura che rappresenta, della lente attraverso la quale egli guarda il mondo. Un’eredità che anche i profani come me sono in grado di apprezzare e avvertire tuttora come largamente viva. Un titolo per tutti: Viaggio a Tokyo (1953). Del resto nel suo Tokyo-Ga (1985) è proprio Wenders che in certo qual modo guida gli spettatori alla comprensione delle ragioni che stanno alla base del suo rivendicato e riproposto magistero di Ozu e dei valori ispiratori della sua arte, ‘così lontana, così vicina’, si potrebbe dire, prendendo a prestito e rideclinando in altra prospettiva il titolo italiano di uno dei film più noti dello stesso Wenders (Così lontano, così vicino, 1993).
Per quanto mi riguarda, dato che sia Ozu che Wenders figurano entrambi nel mio Pantheon personale degli autori più importanti della storia del cinema, appaiono immediatamente chiare le ragioni che mi hanno indotta a ritornare al cinema – dopo il lungo digiuno dell’era pandemica –, nel segno di un film come Perfect Days, che riporta di nuovo alla ribalta, dal punto di vista dell’ambientazione e dei riferimenti culturali in senso ampio – e con il magico filtro di Ozu, naturalmente – la Tokyo cara al regista tedesco, vissuta nell’attualità del presente.
Da quando il film è stato presentato al festival di Cannes lo scorso anno, ottenendo largo successo da parte della critica e anche il riconoscimento quale miglior protagonista all’attore giapponese Kȱji Yakusho, magistrale interprete della figura di Hirayama intorno alla quale ruota tutto il film, non sono certo mancati, per usare un eufemismo, i commenti positivi a livello internazionale – di addetti ai lavori e non – su quest’opera di Wenders che ora figura, su proposta del Giappone, nella cinquina finale delle candidature agli Oscar dei migliori film stranieri. Un film girato in soli diciassette giorni e nel quale Wenders, per la stragrande maggioranza della critica, tocca i vertici del suo percorso cinematografico, alla pari e forse oltre, con i suoi film più noti e che ne hanno universalmente segnata l’affermazione di grande regista, da Il cielo sopra Berlino (1987) in poi.
Molto si è scritto, a differenti livelli di analisi, sui Perfect Days che Wenders vede in Hirayama, umile e sconosciuto addetto, per scelta personale, alle pulizie dei bagni pubblici, antieroe/eroe di ogni giorno, in pace con sé stesso e con gli altri, capace di condividere con i propri simili le ignote, differenti e spesso difficili sfide del ‘qui e ora’ che la vita presenta, di sentire profonda e silenziosa empatia per loro e rispetto per tutte le cose, di provare autentico e rinnovato stupore di fronte alla luce che da esse promana e che occorre non stancarsi mai di scoprire e riscoprire di nuovo, giorno dopo giorno. Personalmente, soprattutto da quando il film è uscito nelle sale in Italia, il 4 gennaio, e con particolare bulimia dopo averlo visto a due settimane dal suo esordio, ho letto molte delle attente e variegate considerazioni che sono state fatte in proposito da esperti di cinema e commentatori a vario titolo, nel tentativo di capire io stessa cosa mi avesse particolarmente affascinata e tenuta incollata alla poltrona, nel timore di perdermi il suono dei lunghi silenzi e delle misurate parole di coloro che, insieme con il protagonista, comparivano sulla scena del film: silenzio assoluto da parte di tutti gli spettatori nella sala in cui ero. E questa pare proprio essere stata un’esperienza comune ai molti che hanno visto il film anche nel nostro Paese.
Sì, molti, anzi moltissimi spettatori in Italia, dato che nel primo mese di programmazione nelle sale il film ha toccato la cifra di 600.000 spettatori e continua tuttora a tener banco: una sorta di vero e proprio miracolo per un film di qualità, il quale non ha nulla di nulla degli elementi che solitamente attraggono un grande pubblico. Penso che andrò a rivederlo di nuovo, perché effettivamente molte delle critiche che ho letto – delle pochissime negative che ho incontrato non vale nemmeno la pena spender tempo a parlarne –, mi hanno aiutata a rilevare alcuni particolari che forse mi sono di primo acchito sfuggiti e sui quali m’interessa ritornare. Alla fine credo però che, al di là degli elementi positivi di critica di cui sopra e delle interviste fatte allo stesso Wenders a proposito del suo film – che possono sicuramente aiutare lo spettatore nel rapportarsi al film stesso –, resta sempre il miracolo discreto dell’arte che rende partecipe e coinvolge a tutto campo chi ne fruisce al di là dei singoli elementi costitutivi di ogni opera, che lo porta a pensare, proiettandolo immediatamente in un altrove in cui non hanno luogo superficialità, stupidità e simili.
In uno slancio di ottimismo per questi primi mesi 2024, così avari di fatti positivi in Italia e nel resto del mondo, si potrebbe forse addirittura accarezzare l’utopia che, chi sa, persino la politica un giorno possa accorgersi che esistono scelte idonee a raccogliere la sfida dei Perfect Days e di coloro che vi si riconoscono.
Maurizio Griffo dice
un bellissmo film