In un vecchio saggio del 1984, Bernard Manin, scrivendo della teorica liberale e della limitazione dei poteri dello Stato, ha osservato che «è possibile limitare il potere politico determinando a priori, in qualche modo, i campi in cui esso può legittimamente agire e imporre le proprie decisioni, e quelli in cui non può farlo. Il liberalismo di mercato si fonda su questa delimitazione; a rigore esso presuppone la possibilità di determinare una volta per tutte un settore, quello degli scambi economici, in cui l’azione del potere politico è, con qualche eccezione, illegittima. In questo senso, il liberalismo di mercato si basa su una limitazione del potere mediante la norma. Si scopre che, se lo Stato si astiene dall’ intervenire in quel settore, dal regolamentare le occupazioni o i redditi di ognuno, si forma un ordine spontaneo; gli individui che perseguono solo i propri interessi personali soddisfano reciprocamente i loro diversi bisogni. […] Ma esiste un altro modo di prendere in considerazione la limitazione del potere: si può dividerlo, ridurlo in modo che, con parecchi poteri contrapposti, nessuno possa predo-minare in modo assoluto. Qui la limitazione non deriva da una norma fissa precedentemente determinata, ma dal gioco delle forze, dal loro conflitto e dal loro equilibrio».
Sinceramente, non credo che sia possibile «limitare il potere politico determinando a priori i campi in cui esso può legittimamente agire e quelli in cui non può farlo»: chi potrebbe stabilire, infatti, i limiti legittimi del potere politico e sulla base di quali criteri e misure di valore accettabili da tutti? Uno Stato non è una limatura di ferro tenuta insieme dalla calamita degli interessi economici: è una ‘comunità politica’ la cui difesa può esigere il sacrificio o il ridimensionamento o la sospensione temporanea di quei ‘diritti individuali’ sacri e assoluti su cui si fonda il liberalismo razionalistico e universalistico contemporaneo che vede nello storicismo di Benedetto Croce e di Isaiah Berlin il nemico della ‘società aperta’. Eppoi anche se si riuscisse a fissare the Limits of State Action, ovvero lo spazio ristretto entro il quale contenere l’attività dei governi, ciò non comporterebbe una limitazione della libertà politica di quei partiti e movimenti che vorrebbero ampliarlo? In realtà, una democrazia liberale trova la sua più solida garanzia non in poteri che si bilanciano o in poteri che si limitano, ma nel ‘pluralismo’ come «costume della mente e abito del cuore» (Tocqueville) ovvero nel rispetto e nel riconoscimento reciproco di tutti gli interessi e valori in gioco e nella capacità di neutralizzare e di riassorbire, disinnescandone gli elementi esplosivi, quelli più pericolosi per la convivenza civile (ad es., i radicali di destra diventano la destra del partito conservatore e i radicali di sinistra diventano la sinistra del partito laburista).
Tutto questo sembra scontato e persino banale ma non lo è per quei paesi, come l’Italia o la Spagna, che stentano a entrare nell’epoca della secolarizzazione della lotta politica ovvero del disarmo generale degli spiriti, con la connessa rinuncia a riguardare la propria parte politica come apportatrice di salvezza. Non può esserci confronto civile quando gli avversari incarnano il male, la reazione o, al contrario, la sovversione: in questi casi, infatti, il conflitto diventa una guerra pro aris et focis e ogni disegno politico che provenga dall’altra parte viene considerato un cavallo di Troia per impossessarsi della città nemica.
Nella storia d’Italia abbondano gli esempi. Di volta in volta i nemici sono stati gli austriacanti, i clericali, gli anarchici, i disfattisti, i fascisti, i neofascisti, i postfascisti etc. Un illustre giurista di sinistra, già (sfortunato) candidato al Quirinale, tanti anni fa dichiarò che l’Italia era passata dal fascismo a partito unico al fascismo a otto partiti, per dire che la ‘società civile’ restava pur sempre una colonia della politica. (E questo a causa della ‘malattia’ della società civile, guaribile solo con una ‘riforma morale e intellettuale’ degli Italiani affidata, appunto, ai partiti redentori). Era questo il vero male della partitocrazia che neppure il più prestigioso periodico di cultura politica degli anni ’50 e ’60, «Il Mondo», sembrava prendere in seria considerazione. I suoi collaboratori, in primis Vittorio de Caprariis, si richiamavano (giustamente) alla funzione vitale dei partiti politici, ma senza rendersi conto che da noi tale funzione era vanificata dalla loro costante e reciproca delegittimazione, laddove in un regime liberale a norma, come quello inglese, Governo e Opposizione erano la sistole e la diastole del cuore democratico (tant’è che si parla di Opposizione di Sua Maestà britannica). Per «Il Mondo», al di fuori del centro-sinistra c’erano solo il deserto della reazione sociale e politica o la sovversione comunista: i suoi valori erano quelli europei e atlantici, beninteso, ma i suoi titoli di ‘nobiltà dello spirito’ erano riposti soprattutto nell’antifascismo – sia pure in un antifascismo nettamente distinto da quello totalitario attribuito ai comunisti.
I rapporti di forza tra gli schieramenti politici sono cambiati da diversi anni, ma si ritiene che Annibale sia sempre alle porte e che, pertanto, la vigilanza non debba mai venir meno, giacché il male può assumere diverse forme per nascondere i suoi oscuri disegni reazionari. Dalla storiografia revisionista – che con Renzo De Felice, Augusto Del Noce e altri poteva diventare il momento della laicizzazione del conflitto politico e, quindi, della metabolizzazione degli eventi tragici che hanno segnato la storia nazionale – Marco Revelli ha messo in guardia scrivendo che essa tende «a riscrivere la storia italiana – a reinventare la tradizione italiana – secondo le linee di una più generale riconciliazione degli italiani con il proprio passato e con se stessi; di una rimozione – o relativizzazione benevola – dei suoi punti critici, delle cadute e lacerazioni (a cominciare da quella, inconciliabile, del fascismo), in nome di un nuovo unanimismo» (Gobettismi, pseudo-gobettismi, anti-gobettismi, in V. Pazé, a cura di, Cent’anni. Piero Gobetti nella storia d’Italia, Angeli, Milano 2004). Insomma, la guerra civile deve continuare.
A una political culture, così poco in linea col pluralismo democratico, anche il mondo laico e liberale d’antan ha portato, involontariamente, il suo granello di sabbia. Mi limito a far rilevare che tra i mali generati da questa ‘ideologia italiana’ sopravvive il malcostume di non discutere i progetti di legge, avanzati dal governo e approvati dalla sua maggioranza parlamentare, come idonei o non idonei al perseguimento dell’interesse collettivo, ma di interpretarli come mosse strategiche intese a precipitare il paese nel baratro di contrapposizioni ideali tenute artificialmente in vita.
Giuseppe IERACI dice
Totalmente d’accordo che una limitazione dei campi d’azione del potere abbia delle connotazioni illiberali. Il pluralismo è ciò che limita il potere, come giustamente scrive Cofrancesco, non per qualche sua virtù etica – o comunque non solo per quella. Il pluralismo limita il potere perché implica la possibilità/eventualità della “perdita del potere”. Il titolare del potere oggi viene scalzato domani, se c’è pluralismo (ma bastano un antagonista credibile, non ne servono 7-8: dice bene Cofrancesco) i detentori del potere sono “limitati” almeno temporalmente, perché saranno cacciati primo o poi, e questo basta.
Il paradosso italiano è così servito. Il pluralismo c’è. Le “parti” al potere si alternano ininterrottamente dalla metà degli anni 90 in avanti, le “parti” si limitano vicendevolmente come vuole la prassi democratica ben funzionante. Eppure, le “parti” si delegittimano e si trattano reciprocamente come nemici in una “guerra civile” permanente, come sottolineato da Cofrancesco.
Qui davvero bisognerebbe ricorrere ad uno studio profondo delle caratteristiche della cultura politica italiana, anche se è facile intuire – credo …- che due spaccature novecentesche profonde abbiano inciso su di essa: a sinistra, quella tra comunisti e socialisti; a destra, quella tra la tradizione liberale post-unitaria e il fascismo. Siamo l’unico paese tra quelli che una volta si chiamavano “industriali avanzati” nel quale convivono una sinistra che non è “sinistra” e una destra che non è “destra”.
Franco Chiarenza dice
Cofrancesco ha ragione. Il problema della legittimazione reciproca rappresenta il nodo non ancora sciolto delle democrazie mediterranee. Abbiamo contribuito anche noi liberali quando contrastavamo il partito comunista. Ma il fatto è che per legittimare politicamente e moralmente l’avversario occorre riconoscersi in un quadro comune di riferimento ideologico (come appunto avveniva nella His Majesty Opposition); mentre da noi la discriminazione (conventio ad excludendum) era fondata sul processo alle intenzioni, da una parte e dall’altra. Anche per questo l’anti-fascismo non è mai divenuto terreno di valori condivisi perchè se inteso come metodo di azione politica che rifiuta il pluralismo avrebbe coinvolto i comunisti, se interpretato per ciò che storicamente il fascismo è stato avrebbe messo in luce le troppe contraddizioni della destra. Un tema che merita ulteriori approfondimenti; ha fatto bene Cofrancesco a riproporlo, anche in vista della crescita dei populismo che del fascismo riprende gli obiettivi liberticidi ma con forme e metodi di azione politica ben diversi dal grezzo totalitarismo dispotico di Mussolini, Hitler, Stalin. Altro discorso che coinvolge i nuovi mezzi di comunicazione di massa, le spinte emotive che salgono dal basso e tanti altri fattori.