È forse dalla fine della Seconda guerra mondiale che in Italia — ma non solo in Italia — il liberalismo dei nostri padri, quello ottocentesco, ha disertato le nostre menti ma, soprattutto, i nostri cuori. Il suo posto è stato preso dal liberalismo secentesco e settecentesco, individualistico e razionalistico, oggi divenuto la filosofia politica ufficiale dell’Occidente. Si tratta pur sempre di due diverse species dello stesso genus, si dirà, sennonché, il tramonto del primo porta con sé non solo una ‘forma di governo’, ma anche una dimensione fondamentale dell’umana convivenza, la politica. Vediamo.
Per caratterizzare il liberalismo ottocentesco, la metafora più appropriata è la ‘Grande Famiglia’: la patria, lo stato nazionale, sono il solido terreno storico su cui vengono piantate le istituzioni della libertà, la divisione dei poteri, i diritti individuali, la libertà di mercato. Senza questi ultimi istituti è difficile conseguire l’«unità e la potenza delle nazioni»: non ci si arricchisce senza concorrenza, non si contribuisce al bene pubblico se si è sudditi di un potere arbitrario, non si crea nulla, nel regno dello spirito, se non si ha il senso della dignità e della libertà dei cittadini. Ma in vista è sempre il «noi», il nostro impegno a migliorarci, a lasciare alle generazioni future un paese più prospero di quello ereditato. È una visione condivisa dagli stessi socialisti democratici, il cui patriottismo oggi avrebbe bisogno di essere spiegato. Penso ai Rodolfo Mondolfo, agli Alessandro Levi, ai Leonida Bissolati, allo stesso Filippo Turati.
Per caratterizzare il liberalismo del nostro tempo, la metafora più appropriata, invece, è la Piazza del Mercato. Interessi e diritti sono il cemento della società moderna: si sta insieme per convenienza, per tutelare ciò che ci appartiene, per vivere al sicuro dalla violenza (il Leviatano di Hobbes, non a caso, è stato visto non come l’antenato del totalitarismo ma come il garante della «legge e ordine», prerequisito funzionale di una società libera).
Nelle Lezioni di politica sociale (1949) Luigi Einaudi parlava dello Stato come qualcosa che dovesse venire quasi giustificato agli occhi del liberale:
«Tutti coloro i quali vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario ed il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno sulla fiera. E ci sono le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose che conducono dai casolari della campagna al centro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono, che, se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere o sarebbe tutta diversa da quel che effettivamente è.»
Non credo che per i saggisti liberali, che distillano saggezza sui grandi quotidiani nazionali, ci sia altro da aggiungere. L’economia di mercato, le «garanzie della libertà», iscritte nella Costituzione, l’etica cristiano-illuministica che ci apre al mondo e ci rende sensibili ai bisogni e alle sofferenze del prossimo sono le uniche risorse di cui possiamo disporre per vivere liberi e felici. «Dio, Patria e Famiglia», ha scritto, un apprezzato scienziato politico, sono ostacoli sulla via della globalizzazione e dell’acquisizione della coscienza dell’unità del genere umano.
E se non fosse proprio così? E se, per una parte consistente dei nostri simili, la salvaguardia delle radici, delle tradizioni, del patrimonio culturale e linguistico tramandatoci dai nostri avi fosse più importante di un buon affare e tale da limitare qualche diritto di libertà? Una pratica protezionistica volta a tutelare produzioni di prestigio ereditate dal passato e da secoli simboli di una civiltà urbana o contadina, non viene considerata, nell’ottica del liberalismo comunitario, un peccato contro l’economia; il rifiuto del diploma ufficiale a chi voglia frequentare scuole in cui si insegni solo in inglese e non si perda tempo a studiare i classici della letteratura italiana non viene ritenuto una lesione del diritto di studiare quel che si vuole e dove si vuole.
La dimensione della Grande Famiglia è la dimensione stessa dello Stato e della Politica, — non a caso demonizzati dai nuovi liberali che ripropongono il vecchio leit motiv libertario che nell’uno e nell’altra vede l’oppressione dell’individuo e dei suoi sacrosanti diritti. E in effetti quando Economia e Diritto rappresentano valori relativi da soppesare e bilanciare con altri valori, solo un’istanza superiore — lo Stato appunto — può stabilire quali strategie adottare per assicurare il bonum publicum. È quanto accadeva del «mondo di ieri», anche se con esiti non sempre esaltanti.
Einaudi era un liberale ottocentesco (monarchico e risorgimentista) ma, nella pagina su riportata, si espone al sospetto che per lui, lo Stato fossero i carabinieri e le guardie municipali che fanno rispettare l’ordine, la pretura e la conciliatura che dirimono gli eventuali contenziosi tra quanti si scambiano beni e servizi, i notai che redigono i contratti, gli avvocati che difendono le vittime delle truffe.
Per i liberali, i mazziniani, i garibaldini, i socialisti postrisorgimentali l’Italia non era solo la Piazza del Mercato: era una Tradizione e un Progetto, una comunità di destino che poteva darsi istituzioni che piacevano agli uni e non agli altri, politiche estere che non trovavano concordi i vari partiti, ma che, nondimeno, era la grande casa comune che tutti erano tenuti a difendere e ad arricchire materialmente e spiritualmente. Nessuno avrebbe detto allora con Voltaire (che citava il Fetonte di Euripide): «la patria è dovunque ci si trova bene». Oggi, invece, sono le parole di Turati «anche per noi socialisti la patria è sul Grappa» ad essere divenute incomprensibili.
Franco Chiarenza dice
Caro Dino, a mio avviso non ci sono due liberalismi ce ne sono tanti con diverse sensibilità, purchè entro paletti invalicabili segnati dalle teorie liberali e dalla storia. Il liberalismo è nato con una netta demarcazione nei confronti dei regimi assoluti, ancorchè “illuminati”, che nel 700 predominavano in Europa. Dopo allora molta acqua è passata sotto i ponti e i sistemi liberal-democratici si sono affermati come cornici incontestabili di qualsiasi partito democratico (comprendendo i movimenti ispirati al cristianesimo o al socialismo democratico. Quei paletti che proteggono il pluralismo politico, l’economia di mercato regolata, l’equilibrio tra i poteri dello Stato, vengono oggi rimessi in discussione dai regimi autoritari (assai diversi dai vecchi regimi dittatoriali fascisti e comunisti) in nome di una presunta loro inadeguatezza a tutelare gli interessi nazionali in realtà geo-politiche complesse come quelle che si sono create nel nuovo millennio. Il consenso popolare – secondo i populisti -può e deve essere manipolato nell’interesse stesso della maggioranza ignorante e priva degli strumenti conoscitivi necessari per valutare le azioni politiche che si rendono necessarie. Il liberalismo si fondava sulla crescita intellettuale (attraverso la mediazione dei ceti medi), il sovranismo populista promuove invece la decrescita. I nuovi strumenti di comunicazione che raccolgono le emozioni e marginalizzano le riflessioni sono funzionali a tale scopo.
Dino Cofrancesco dice
Cara Raffaella,
pensavo anche al tuo Minghetti. di cui hai curato, nel 1986, una preziosa (e catacombale) edizione degli ‘Scritti politici’ per la Presidenza del Consiglio (con Prefazione di Rosario Romeo). Ma chi lo legge più? Nell’ottica di quello che chiamo il ‘liberalismo societario’, Minghetti sarebbe indistinguibile dagli statalisti liberali della scuola napoletana. D’altra parte, con riferimento al tuo Prefatore, chi legge più la monumentale opera di Romeo su Cavour?
raffaella gherardi dice
Che dire, caro Dino? Tu sai del mio amore per il liberlismo italiano della seconda metà dell’Ottocentoe in particolare per la figura di Marco Minghetti, non solo grande statista ma pensatore poitico di primo piano le cui grandi opere venivano allora immediatamente tradotte nelle principali lingue europee: da “Della economia pubblica e le sue attinenze colla morale e col diritto” (1859) a “Stato e Chiesa” (1878) a ” I partiti politici e le loro ingerenze nella giustizia e nell’amministrazione” (1881). Le tue riflessioni me le fanno immediatamente venire in mente e credo tu sappia subito capire il perché: profondamente liberale Minghetti è assai lontano da ogni semplificazione estrema/estremistica nel tracciare i rapporti fra “Il cittadino e lo Stato” (titolo della sua ultima opera). Ed era questa la ragione dell’interesse per la sua opera da parte dei grandi liberali del tempo.