Il 2 aprile 1917, il presidente Woodrow Wilson chiese al Congresso di approvare una dichiarazione di guerra contro la Germania imperiale, proclamando che lo scopo degli Stati Uniti era quello di rendere il mondo «sicuro per la democrazia». La spinta ideale verso l’interventismo democratico proveniva da diversi depositi intellettuali dell’ex-rettore di Princeton, tra cui quello contenente il pensiero di Giuseppe Mazzini. [Leggi di più…]
Politologi con l’elmetto e ingegneria internazionale
La storia degli equilibri mondiali è da riscrivere, ma si sta scrivendo. Il pubblico ne pare avvertito e cerca di regolarsi. Ma è allevato dalla televisione e dai social e, sotto tutti gli aspetti, rimane altamente disinformato. O, come amava dire Sartori, malinformato. Allo stesso tempo il pubblico viene nutrito di una informazione emotiva, alimentata da immagini che fanno commuovere o arrabbiare: il che spesso surriscalda i problemi al di là della capacità di risolverli.
Il processo di Berlino e la geopolitica estera dell’UE
Come nelle precedenti conferenze annuali, l’ottavo vertice del Processo di Berlino, tenutosi virtualmente il 5 luglio 2021, si è concluso con un quasi-niente di fatto. Eppure segna un passaggio decisivo della geopolitica estera dell’Europa.
Presieduto per la seconda volta da Angela Merkel – come per chiudere il cerchio in vista delle elezioni politiche di settembre in Germania, quando volontariamente uscirà di scena – il summit aveva destato maggiori aspettative. La prima riunione inaugurale si tenne a Berlino il 28 agosto 2014, quando, giunta al terzo mandato, la cancelliera federale decise di rilanciare l’espansione della cooperazione regionale europea negli stati dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Kosovo, Macedonia settentrionale e Serbia).
Il processo di Berlino fu pensato nel 2014 come una piattaforma per assicurare una maggiore integrazione all’interno dei Balcani occidentali, quindi favorire l’allargamento dell’UE grazie all’iniziativa di un gruppo di stati composto inizialmente da Austria, Francia, Italia, Regno Unito, Slovenia, Croazia e Polonia, ai quali si sarebbero potuti aggiungere altri paesi disposti ad ospitare un vertice, come fu il caso della Bulgaria nel 2020. [Leggi di più…]
Un troppo problematico vincolo europeo
Per curare le disfunzioni economiche del sistema politico italiano, stando alla teoria del vincolo esterno, è necessario sottoporre le decisioni politiche al rispetto di parametri economici concordati con altri paesi. In particolare, il mancato aggancio all’Europa lascerebbe l’Italia sola con i suoi problemi e pericolosamente esposta alle minacce esterne. Il vincolo europeo è dunque necessario per indirizzare il paese verso quelle riforme che i partiti politici non sarebbero in grado di varare e attuare autonomamente.
Nella storia d’Italia, il vincolo esterno è stato non solo una teoria ma anche una prassi. Nelle scelte di politica estera, l’Europa è molto spesso apparsa – almeno a certe élite del paese – un vincolo utile per superare il ritardo storico della nazione. Già in età liberale, le politiche di alleanza sono state interpretate più come un mezzo per importare modelli esterni di sviluppo politico che come un semplice gioco diplomatico per garantire la sicurezza.
Il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo: luci e ombre per l’Italia
La crisi migratoria del 2015 ha spinto e indirizzato il processo decisionale sulla politica migratoria europea. Ne è nato un «Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo», comunicato dalla Commissione europea alle altre istituzioni europee, Parlamento, Consiglio ecc. il 23 settembre 2020.
La mossa della Commissione è apparsa più incisiva rispetto ai precedenti tentativi di riforma della politica migratoria in Europa. Forse la Commissione ha ritenuto di poter sfruttare lo slancio dello storico accordo di questa estate sul piano di ripresa economica dalla pandemia. Difficilmente, tuttavia, sarà raggiunto l’obiettivo di unificare le capitali europee dietro una politica migratoria comune dopo anni di profonde divisioni. [Leggi di più…]
Dopo la caduta del Muro di Berlino
Quasi tutte le generazioni pensano di vivere tempi straordinari. Per la generazione uscita dal trauma della Seconda guerra mondiale, furono gli anni della ricostruzione postbellica. Per i loro figli, furono forse gli anni delle contestazioni giovanili, con la conseguente riconfigurazione dell’economia globale. Per la mia generazione, fu il triennio 1989-1991 e la fine della Guerra fredda, dopo che le immagini dei tedeschi dell’est intenti a ridurre in pezzi il Muro di Berlino brillarono sugli schermi televisivi, ormai trent’anni fa. Nel giro di poco, vestendo i panni degli studiosi in erba, con alcuni amici iniziammo ad ironizzare sull’incipit di quasi tutti gli scritti politici del tempo, anche del più insignificante: ‘Dopo la caduta del Muro di Berlino, …’ eppure, la consapevolezza che la storia fosse giunta a un termine ci accompagnò a lungo.
Il sovranismo globalista del Regno Unito, dopo il voto sulla Brexit
La vittoria del Leave si è inserita nel pantheon del sovranismo, ossia la fede in un incontestabile primato del livello nazionale della politica. Ciò significa il dover recuperare a questo preciso livello (istituzionale e territoriale) il potere che si è disperso lungo i diversi e stratificati livelli della governance europea. Durante la campagna per il referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea, i sostenitori del Leave hanno usato l’immagine del confine come il più eloquente segno della differenza tra dentro e fuori, tra un presente segnato da incertezza e crisi e un futuro alternativo, nel quale l’autodeterminazione popolare sia ri-territorializzata. Da un lato, si è posta la prospettiva di ristabilire il pieno controllo sovrano sulle frontiere nazionali, la promessa di fermare l’immigrazione, l’assicurazione di riportare il potere nelle stanze del Parlamento, inside the Commons. [Leggi di più…]