- Horizon Europe è il nome del nono programma quadro europeo per la ricerca e l’innovazione, al quale nel piano finanziario pluriennale 2021-2027 verranno destinati, così le intenzioni, non meno di 100 miliardi di euro. Di Horizon Europe si parla poco sui giornali. Eppure gli emendamenti degli eurodeputati al fascicolo interistituzionale 2018/0224(COD), Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che istituisce Orizzonte Europa – il programma quadro di ricerca e innovazione – e ne stabilisce le norme di partecipazione e diffusione – Risultati dei lavori del Parlamento europeo (Strasburgo, 10-13 dicembre 2018) pubblicato dalla Commissione Europea il 3 dicembre 2018 erano all’ordine del giorno della sessione plenaria dell’Europarlamento nota alle cronache per l’ignobile attentato compiuto al Marché de Noël di Strasburgo la sera dell’11 dicembre. Il 9 gennaio 2019, e anche questo viene largamente ignorato, ha avuto inizio il negoziato inter-istituzionale (trilogo formale) sul solo regolamento, che porterà a un testo condiviso e ai contenuti definitivi del programma entro l’estate.
- Una buona notizia, certo. Manca però la percezione che ci troviamo nel pieno di una battaglia. Quale? La battaglia per attribuire alle scienze umane e sociali (SSH) un ruolo all’interno di Horizon Europe. Nella versione del fascicolo interistituzionale rilasciata il 3 dicembre si nota subito come il titolo del cluster «Società inclusive e sicure» di Horizon Europe, dedicato alle «trasformazioni socio-economiche che contribuiscono all’inclusione e alla crescita», sia assai diverso da quello della sfida sociale 6 «Società inclusive, innovative e riflessive», sua corrispondente in Horizon 2020. Gli emendamenti proposti finora dagli eurodeputati sono stati pubblicati l’11 gennaio 2019 e hanno portato a risultati incoraggianti.
- Nello specifico, l’emendamento 64 ha imposto un significativo cambiamento rispetto all’originario cluster su «Società inclusive e sicure», che viene riformulato senza la parte relativa alla sicurezza e porta ora la dizione «Società inclusive e creative», aprendo all’intero spettro delle SSH. Ma è soprattutto interessante la previsione contenuta nell’articolo 4 del regolamento sulla struttura dei cluster con la dichiarazione che tutti i cluster debbano avere all’interno le SSH. Nell’emendamento 67 all’articolo 6 bis, «Principi dei finanziamenti della UE e questioni trasversali», che definisce Horizon Europe come un programma che «assicura un approccio interdisciplinare e prevede, ove del caso, l’integrazione delle scienze sociali e umanistiche in tutte le attività sviluppate nell’ambito del programma». Non deve sfuggire la differenza tra avere le SSH unicamente nei principi ed averle anche nell’articolo istitutivo dei cluster. Il prossimo obiettivo è la previsione nel programma specifico che in tutti gli consigli consultivi e i comitati di valutazione sia obbligatoria un’adeguata presenza di esperti delle SSH. Il 29 gennaio 2019, i risultati del trilogo sono stati presentati al Comitato dei Rappresentanti Permanenti. Aspettiamo novità, visto che si stanno presentando scenari sempre più interessanti. Naturalmente persiste il rischio che sparisca ogni riferimento alle scienze umane, come qualche Stato Membro del centro nord amerebbe fare. La battaglia continua.
- Mettendo insieme i tre pezzi, ossia la formulazione del nome del cluster, la presenza delle SSH nel co-design dei progetti e la nomina di esperti delle SSH in tutti le commissioni di valutazione ne deriverebbe un quadro complessivo che non ha precedenti per le SSH. Il trilogo è in pieno svolgimento e il Consiglio d’Europa e l’Europarlamento stanno lavorando per modificare il testo originario proposto dalla Commissione Europea alla discussione in Parlamento. I rappresentanti italiani nel Consiglio d’Europa e gli eurodeputati italiani in Parlamento stanno lavorando con iniziative di grande valore, dobbiamo riconoscerlo, per consolidare quanto ottenuto finora e rafforzare ulteriormente il testo a favore delle SSH.
- Prima di continuare, è utile ricordare che la battaglia in questione fu già fatta l’8 gennaio 2013 e fu vinta da un gruppo di eurodeputate ed eurodeputati guidato da Maria da Graça Carvahlo, già ministro dell’istruzione, ricerca e innovazione del Portogallo, relatrice della Relazione sulla proposta di decisione del Consiglio che stabilisce il programma specifico recante attuazione del programma quadro di ricerca e innovazione (2014-2020) – Orizzonte 2020 (COM(2011)0811 – C7-0509/2011 – 2011/0402(CNS)), firmata anche dalle parlamentari italiane Patrizia Toia, presidente della Commissione ITRE (industria, ricerca, energia) e Silvia Costa, che nella legislatura successiva sarebbe divenuta presidente della Commissione Cultura.
- Nel 2013 si trattava di rimediare all’esclusione delle SSH dai precedenti sette programmi quadro per la ricerca e l’innovazione, nei quali erano ammesse solo come ancillari al «patrimonio culturale» in quanto affetto dal cambiamento climatico, e dunque tra le azioni per l’ambiente. L’emendamento 43 dell’8 gennaio 2013 chiedeva per la prima volta finanziamenti europei per la ricerca su «questioni di natura orizzontale, come la crescita intelligente e sostenibile, le trasformazioni sociali e culturali nelle società europee, l’inclusione politica e la partecipazione democratica, il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa e la formazione di una sfera pubblica, l’innovazione sociale, l’innovazione nel settore pubblico o la posizione dell’Europa come protagonista mondiale».
- In questo contesto, l’emendamento 64 dell’8 gennaio 2013 reagiva all’approccio dei precedenti programmi quadro, approccio assolutamente riduttivo negli obiettivi, introducendo la società riflessiva come condizione di possibilità per promuovere «l’inclusione sociale, economica e politica, combattere la povertà, migliorare i diritti umani, l’integrazione digitale ed educativa, l’uguaglianza, la solidarietà, la diversità culturale e il dialogo interculturale sostenendo la ricerca interdisciplinare, l’elaborazione di indicatori, lo sviluppo, i progressi tecnologici, le soluzioni organizzative e nuove forme di collaborazione e di creazione condivisa».
- È nella memoria di chi vi assistette il vivace scambio di vedute avvenuto durante la conferenza di presidenza lituana del Consiglio d’Europa su Horizons for SSH a Vilnius del 23-24 settembre 2013 tra l’allora commissaria per la ricerca e l’innovazione Marie Geoghan-Quinn e un delegato italiano, che all’affermazione della commissaria che le priorità europee restavano tre, ossia il cambiamento climatico, l’invecchiamento della popolazione e la scarsità di risorse energetiche, reagì portando la posizione del governo italiano che occorreva aggiungere una priorità europea per la cultura, visto che in Europa abbiamo 23 lingue ufficiali, la maggior parte dei siti Unesco e un flusso costante di migrazioni all’interno e dall’esterno dei suoi confini. Al che la commissaria replicò chiedendo cosa si dovesse fare, forse sedersi e riflettere? Esattamente quel che ci vorrebbe, rispose quello, tra le risate dell’intera assemblea.
- La «società riflessiva» fa riferimento alla comunicazione deliberativa dei cittadini che mira alla comprensione reciproca in uno spazio pubblico. Le basi per la nozione sono state poste da Immanuel Kant (Kritik der Urteilskraft, 1790), G. W. F. Hegel (Wissenschaft der Logik II, 1813), Jürgen Habermas (Wahrheitstheorien, 1973), James S. Fishkin (The Self-Reflective Society, 1992), Ulrich Beck, Anthony Giddens e Scott Lash (Reflexive Moderne, 1996) e Alessandro Ferrara (Reflective Authenticity, 1998). Si tratta di applicare alla società quello che Hegel aveva elaborato come il passaggio dalla superficie dell’essere alla base dell’essenza, un passaggio che si svolge, letteralmente, riflettendo nella cosa – come la luce che illumina qualcosa che in precedenza era invisibile o crea uno schema non esistente in precedenza. Insistere sulla riflessione aiuta a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di inquadrare le questioni che riguardano il coinvolgimento con la scienza e la società, l’identificazione dei problemi e la definizione di soluzioni.
Anche la Convenzione Quadro di Faro sul valore del patrimonio culturale per la società dell’Unesco del 2007incoraggia la riflessione sul ruolo dei cittadini nel processo di definizione, creazione e gestione dell’ambiente culturale nel quale la società si sviluppa.
La conferenza di presidenza austriaca del Consiglio d’Europa su SSH Impact a Vienna del 28-29 novembre 2018 è stata aperta dal ministro federale austriaco dell’istruzione, la scienza e la ricerca, Heinz Faßmann, che ha insistito sul fatto che le sfide del nostro tempo non possono essere risolte solo dalle scienze naturali e l’ingegneria, poiché anche la ricerca nelle SSH produce innovazione. Inoltre, tutte le discipline devono lavorare assieme e la prospettiva critica e auto-riflessiva delle scienze umane e sociali è indispensabile perché mette costantemente in questione gli schemi stabiliti.
In Horizon 2020, al di là della sfida sociale 6, l’approccio proposto era quello del cosiddetto embedding, secondo il quale la riflessività non solo non sarebbe mai dovuta venir meno, ma sarebbe stata anzi valorizzata dall’esplicita richiesta (da valutare per le graduatorie dei progetti) che gli scienziati, le pratiche scientifiche, il governo della scienza e la società stessa divengano più riflessivi, ad esempio per ripensare l’intelligenza artificiale, il potenziamento umano, la frammentazione del sapere, la capacità di concentrazione e l’accesso ai dati.
Nonostante i buoni propositi, l’embedding non ha funzionato in Horizon 2020. L’integrazione scientifica delle SSH non si è avuta, come è stato dimostrato dal 3rd SSH Integration Monitoring Report della European Alliance for Social Sciences and Humanities, rilasciato nel giugno 2018.
Come risulta dal già citato emendamento 67 all’articolo 6 bis, oggi la battaglia per attribuire alle scienze umane e sociali un ruolo all’interno di Horizon Europe ruota attorno a un cambio di paradigma. Per realizzare approcci efficacemente interdisciplinari con il pieno coinvolgimento delle SSH, è dunque opportuno dimenticare l’embedding e pensare invece in termini di cooperation, in un’atmosfera di rispetto reciproco. In questa direzione, sono particolarmente utili le Guidelines on How to Successfully Design and Implement Missions Oriented Research Programmes rilasciate dal Zentrum für Soziale Innovation di Vienna il 23 gennaio 2019. Nell’ambito del pilastro II, «Sfide globali e competitività industriale», sulla base dell’esperienza maturata in Horizon 2020, si chiede che le SSH cooperino e partecipino a tutte le fasi del ciclo d’implementazione dei progetti di ciascun cluster. In altre parole, la riflessione viene mobilitata per coinvolgere le SSH nella ricerca in tutte le scienze, chiedendo agli scienziati, alle pratiche scientifiche, al governo della scienza e alla società moderna di diventare più riflessivi. La riflessione diventerebbe il denominatore comune per le politiche in materia di istruzione, cultura e ricerca.
Prima di chiudere, uno sguardo al pilastro I di Horizon Europe, «Scienza aperta», nel quale vengono sviluppate le infrastrutture di ricerca. La Roadmap 2018 dello European Strategy Forum on Research Infrastructures continua a segnare importanti passi avanti. Una chiara storia di successo è offerta dalle infrastrutture di ricerca europee per l’«innovazione sociale e culturale», che si sono affermate come strumento efficace per dare accesso ai dati, produrre ricerca congiunta e proporre strategie sovranazionali. Nel corso degli anni ne sono state costituite nove (oggi a diversi stadi di completamento): CESSDA ERIC (Council of European Social Science Data Archives) che raccoglie in una rete gli archivi delle scienze sociali; CLARIN ERIC (Common Language Resources and Technology Infrastructure) per la linguistica; DARIAH ERIC (Digital Research Infrastructure for the Arts and Humanities) per le arti e l’informatica umanistica; EHRI (European Holocaust Research Infrastructure) per la ricerca sull’Olocausto; E-RIHS (European Research Infrastructure for Heritage Science) per la scienza del patrimonio culturale, ovvero per la sua interpretazione, conservazione, documentazione e gestione; ESS ERIC (European Social Survey) per la rilevazione del benessere della popolazione; OPERAS (Open Scholarly Communication in Europe) per le pubblicazioni open science; RESILIENCE (Religious Studies Infrastructure: Libraries, Experts, Nodes and Centres) per le scienze religiose; e infine SHARE ERIC (Survey on Health, Ageing, and Retirement in Europe) per la società che invecchia (cfr. ESFRI Roadmap 2018, Milano 2018, pp. 196-115).
L’Italia continua a svolgere una funzione di apripista per il sistema della ricerca europea nelle scienze umane e sociali con l’Istituto Nazionale di Ottica-CNR capofila di E-RIHS e la Fondazione Scienze Religiose Giovanni XXIII capofila di RESILIENCE, mentre l’Istituto di Linguistica Computazionale-CNR, l’Opera del Vocabolario Italiano-CNR, l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee-CNR e l’Università di Padova sono tra i fondatori, rispettivamente, di CLARIN ERIC, DARIAH ERIC, OPERAS e SHARE ERIC. Non può mancare un tributo alla monumentale opera di Guido Martinotti, tra gli inventori dell’idea stessa di infrastruttura di ricerca, che all’Università di Milano Bicocca faceva nascere CESSDA ERIC ed ESS ERIC.
Sia permesso segnalare, infine, Stay Tuned to the Future: Impact of Research Infrastructures for Social Sciences and Humanities (Lessico Intellettuale Europeo, vol. 128, Firenze 2019), un volume che raccoglie le voci di esperti sulle metodologie di valutazione che provengono dall’intero spettro delle SSH.
Una filosofia della migrazione
- Sono passati due mesi dal voto del 4 marzo in Italia e il tema migrazione sembra sia scomparso dalle pagine dei giornali. Eppure, oggi più che mai abbiamo bisogno di ricchezza culturale e soprattutto di antidoti alla xenofobia. Sappiamo bene che attitudini xenofobe trovano espressione anche in elezioni democratiche e non sempre abbiamo a disposizione un Platone per reagire al voto di cittadini che condannarono Socrate benché innocente.
- La migrazione non è solo spostamento di popolazioni e gruppi etnici. Il suo ambito è più ampio, perché accompagna l’intera storia delle civiltà, proprio perché la migrazione è la causa degli scambi tra culture e dunque la causa dei continui trasferimenti e traduzioni da un contesto linguistico, economico, politico e culturale – diciamo Africa – a un altro – diciamo Europa.
- Rémi Brague ha notato che il termine arabo per dizionario – وماق (qāmūs) – corrisponde alla traslitterazione del nome di un titano della mitologia greca Ὠκεανός (’Okeanós), nel senso originario di un’estensione liquida che abbraccia tutte le terre emerse, permettendo la navigazione e dunque la comunicazione e lo scambio tra culture. Le frontiere politiche definiscono gli uni come membri di una comunità di cittadini e al contempo escludono gli altri. Ma oggi sono sempre più numerose le persone che abitano dei paesi che non sono più i loro e le stesse frontiere sono divenute porose.
- La direzione che sembra doversi favorire fa riferimento a una visione della diversità culturale come fattore ormai strutturale delle società europee e foriero di dinamiche generative del tessuto sociale (come di quello culturale, economico etc.). Si può e si deve, infatti, considerare la migrazione entro il quadro del cambiamento e dell’innovazione della società.
- ‘Innovazione sociale e culturale’ è un sintagma divenuto di uso corrente negli ultimi anni per via del nome scelto dallo European Strategy Forum Research Infrastructures per il gruppo di lavoro che si occupa delle infrastrutture per le scienze umane e sociali. .Su incarico del MIUR e in linea con il gruppo strategico di lavoro Social and Cultural Innovation del foro ESFRI, i ricercatori italiani contribuiscono a quattro infrastrutture di ricerca che si occupano di innovazione sociale e culturale presenti nella Roadmap ESFRI 2016 e si sono candidati per la Roadmap ESFRI 2018 con RESILIENCE-Religious Studies Infrastructure: Libraries, Experts, Nodes and Centres, infrastruttura di ricerca guidata da FSCIRE, il centro di studi creato da Giuseppe Alberigo nel convento dove si stabilì Giuseppe Dossetti al suo ritiro dalla politica e che oggi è diretto da Alberto Melloni (http://www.esfri.eu/working-groups/social-and-cultural-innovation: CLARIN ERIC clarin.eu, DARIAH ERIC www.dariah.eu, E-RIHS www.e-rihs.eu, SHARE ERIC, www.share-project.org, RESILIENCE http://www.fscire.it/index.php/it/networking/infrastruttura-resilience/).
- Detto senza mezzi termini, tocca alla filosofia il compito di individuare un narrativo condiviso su cosa sia successo, stia succedendo e cosa succederà nella migrazione: memoria, affinché morte, violenza e distruzione non succedano di nuovo; e futuro, per un narrativo che ci accompagni nel ventunesimo secolo e che abbia la stessa efficacia di quello presentato da Hanna Arendt sull’olocausto (Eichmann in Jerusalem, apparso sul New Yorker a puntate a partire dal 17 maggio 1963). Per questo motivo, occorre mettersi al lavoro e sviluppare l’importante proposta di Donatella Di Cesare nel suo studio sulla filosofia della migrazione (Stranieri residenti. Per una filosofia della migrazione, Bollati-Boringhieri, Torino 2017).
- Continuiamo a non avere una riflessione sulla migrazione e nemmeno una concettualizzazione su chi sia il migrante. Accettare che siano i confini a determinare gli spazi e luoghi significa andare incontro a un vicolo cieco della democrazia. Da qui la necessità di pensare alla deterritorializzazione come alternativa all’integrità identitaria (Di Cesare, cit., p. 53, 62, 68). Il continente dei migranti dispersi dappertutto è enorme e numerosi sono i popoli che stanno per partire e mettere in gioco world orders old and new. Contro i migranti si ergono gli Stati, i bastioni dello old world order, dell’assoluto nómos della terra. Da qui il conflitto tra la sovranità statale e il diritto di migrare, tra una cittadinanza ristretta e una nuova cittadinanza deterritorializzata (Di Cesare, op.cit., p. 105).
- Indagare, discutere, riflettere. La migrazione richiede un’attenta considerazione delle sue implicazioni etiche e politiche, si pensi soprattutto a questioni legate all’identità personale, al genere, alla diversità culturale e religiosa.
- La crisi dei migranti pone l’Italia e l’Europa davanti a una sfida le cui dimensioni sono comparabili alla sfida posta dalla crisi ecologica dell’ultimo quarto del secolo scorso, crisi che fu superata grazie a un enorme sforzo di ricerca, che portò a una riconversione industriale e un cambiamento nella mentalità dei cittadini. Anche per le migrazioni dobbiamo puntare su un grande impegno di ricerca, su una riconversione del mercato del lavoro e soprattutto su un cambio di mentalità.
- L’innovazione culturale ha luogo quando si produce riflessione. Il populismo come ha ricordato Marco Tarchi su «Paradoxa» il 21 dicembre 2017 non è una teoria politica, non è nemmeno un’ideologia, è piuttosto una mentalità. Ed è dunque sul cambio di mentalità che si deve puntare.
- L’emergenza della crisi dei migranti richiede un nuovo narrativo filosofico per un governo democratico che includa la diversità culturale al livello locale, regionale, nazionale ed europeo. I patrimoni interculturali devono essere appresi; la cittadinanza democratica deve essere rafforzata; e le esperienze condivise vanno incoraggiate attraverso la creazione di spazi di scambio. La direzione che sembra doversi favorire fa riferimento a una visione della diversità culturale come fattore ormai strutturale delle società europee e foriero di dinamiche generative del tessuto sociale (come di quello culturale, economico etc.). I migranti sono «generatori di innovazione e reti», come dimostrano case studies di imprenditori in Lombardia (Alessia Maccaferri, «ilSole240re», n. 631, 14 gennaio 2018, p. 9). Del resto anche papa Francesco ha parlato della necessità di «tracciare la differenza tra immigrazione e invasione». Il «Papa non pensa allo sviluppo di comunità separate in futuro, ma alla fusione di culture a partire dall’identità del Paese ospitante» (Andrea Riccardi, «Corriere della Sera», 15 gennaio 2018, p. 2).
- Per questi motivi, è utile che la filosofia consideri la migrazione entro il quadro del cambiamento e dell’innovazione della società.
Giustizia penale internazionale
- Come procedere affinché le controversie internazionali non siano più decise con le armi, ma affidate, e risolte da, un tribunale internazionale permanente? Osservava il 15 novembre 2016 Francesco D’Agostino in uno dei primi post di questo forum, che l’Occidente «non vuole sentir parlare di guerra, anche quando la fa»; e preferisce interpretare «le violenze che continuano a colpire in modo particolare la cristianità orientale e africana come un fenomeno di criminalità comune, da fronteggiare più col codice penale e con azioni di polizia internazionale che con pratiche politiche». Ma pensando alle tensioni di questi mesi, soprattutto alle tensioni tra Corea del Nord e Stati Uniti, sembra opportuno continuare a chiedersi se non sia possibile prevenire la guerra con lo strumento del diritto, questione affrontata in un recente volume da Daniele Archibugi e Alice Pease (Delitto e castigo nella società globale, Castelvecchi, Roma 2017).
- In effetti, nell’ultimo quarto di secolo è emerso un nuovo sistema di giustizia penale. Abbiamo visto giudici nazionali sempre più audaci nel perseguire reati commessi altrove, abbiamo visto l’ONU istituire specifici tribunali internazionali e soprattutto abbiamo visto creare a Roma, con una cerimonia in Campidoglio il 17 luglio 1998, la Corte Penale Internazionale (CPI), costituita oggi da 123 Stati (su 193 Stati membri dell’ONU, senza però l’adesione di Cina, India, Russia e Stati Uniti), la cui giurisdizione è internazionale, appunto, nel senso che può processare individui responsabili di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di aggressione commessi sul territorio (secondo l’art. 5, par. 1 dello Statuto di Roma del 1 luglio 2002).
- Ricordiamo il processo di Norimberga e poi i processi a Augusto Pinochet, Slobodan Milošević, Radovan Karadžić e Saddam Hussein e chiediamoci francamente se siano stati l’avvio di una oggi tanto acclamata nuova giustizia globale o se siano stati invece, e ben più prosaicamente, l’espressione della volontà dei più potenti di processare i propri nemici. Questione che Archibugi e Pease ripensano a fondo, proponendo di recidere il cordone ombelicale che lega le corti di giustizia internazionali agli Stati e alle organizzazioni che le hanno istituite. Di fatto, oggi «la giurisdizione universale è esercitata da magistrature statali, e i tribunali internazionale sono il risultato di complesse negoziazioni intergovernative». A tal fine, occorre predisporre un tessuto autonomo di norme e procedure sulle quali operare, nella prospettiva autenticamente cosmopolita tracciata dal progetto kantiano per la pace perpetua, un tessuto che si ponga come condizione di possibilità per il futuro di una giustizia penale internazionale che sottragga agli Stati il «potere monocratico di giudicare e punire».
- Concludono Archibugi e Pease: la società civile «ha un ruolo cruciale nel chiedere un progetto di giustizia cosmopolita. Uniamo le forze, pretendiamo che i giudici non vengano scelti dai governi, ma da una internazionale dei giudici. E non dimentichiamo la lezione di Mandela: la giustizia non solo punisce, ma riconcilia». Parole forti, queste, che però aprono una via da percorrere nel ventunesimo secolo, una via, ripetiamolo, che è stata aperta da Immanuel Kant.
Etica e politica delle migrazioni
1. La crisi dei migranti pone l’Italia e l’Europa davanti a una sfida le cui dimensioni sono comparabili alla sfida posta dalla crisi ecologica dell’ultimo quarto del secolo scorso, crisi che fu superata grazie a un enorme sforzo di ricerca, che portò a una riconversione industriale e un cambiamento nella mentalità dei cittadini.
2. La discussione sui migranti coinvolge stolidi e feroci pregiudizi, che vanno combattuti e sfatati a trecentosessanta gradi. Le migrazioni richiedono un analogo approccio multidisciplinare, che coinvolge le scienze umane, le scienze sociali, le scienze religiose e il patrimonio culturale con medicina, matematica, fisica, chimica, scienze della vita, scienze dell’ambiente, trasporti, agroalimentare e data science; ed è questo l’approccio scelto dai ricercatori del Cnr, che hanno già avuto importanti risultati in Italia e in Europa.