Diversi autori si sono recentemente posti la domanda se, accanto agli Stati tradizionali, non si stia oggi sviluppando una nuova categoria a essi assimilabile, fatta di soggetti capaci di influenzare, in modo ben diverso e più di quanto accadesse in passato, la politica globale. Il riferimento è alle cosiddette Big Tech, le grandi società tecnologiche che sempre più intervengono a condizionare appunto le scelte politiche interne e internazionali, non solo sotto un profilo scientifico ed economico, assumendo prerogative un tempo esclusive degli Stati.
Abbiamo tutti studiato che la forma di Stato successiva alla pace di Westfalia richiedeva tre requisiti: un territorio, un popolo, una riconosciuta sovranità. La risposta alla domanda prima posta sembra quindi non poter essere che negativa, ma le ragioni che l’hanno provocata sono tuttavia comprensibili.
A fondamento del potere di quelle che vengono chiamate GAFAM (Google-Alphabet, Amazon, Facebook-Meta, Apple, Microsoft ed altre simili, americane e cinesi) vi è oggi in primo luogo il loro possesso dei ‘dati’. La data governance non solo sfugge al controllo degli Stati, ma è indispensabile agli Stati stessi per predisporre e implementare le politiche economiche, finanziarie, sociali, della difesa e così via. Rendendoli quindi subalterni, e più deboli, nei riguardi delle Big Tech.
Oltre a ciò, il data power si presenta quasi come un marxiano fattore di produzione: condiziona la formazione del sapere e, come detto, i processi di governance; è da numerosi paesi utilizzato per il controllo sociale; crea importanti fenomeni comunicativi e mediatici che influenzano le pubbliche opinioni, le elezioni e quindi le politiche nazionali; serve all’intelligence e può condizionare le stesse operazioni militari (vedi Ucraina e Medio Oriente).
Il possesso dei dati ha poi rilievo anche nell’esercizio di talune libertà. Si pensi soltanto al potere che hanno queste società nel negare il diritto all’accesso e all’utilizzo dei loro canali sulla base di una content moderation da esse stesse esercitata e controllata. E questo vale anche verso i titolari di funzioni pubbliche rilevanti: un Presidente eletto, Trump, si è visto negare da soggetti privati – Facebook, Twitter e YouTube – l’accesso ai canali comunicativi, sia pure per ragioni in teoria comprensibili. Ricordiamo poi la loro influenza, spesso determinante, nella mancata tutela di altri diritti come la privacy e i copyrights.
Non vogliamo qui soffermarci sul loro potere economico – la capitalizzazione di Microsoft è superiore al PIL francese –, in quanto la storia ben conosce società private con rilevanti disponibilità finanziarie che hanno determinato in maniera rilevante la politica internazionale: si pensi soltanto alle ‘sette sorelle’ petrolifere e alla loro influenza su tanti paesi del Medio Oriente. Ma mai ci si pose allora il problema di un loro sostituirsi agli Stati: si parlò al massimo di una ‘cattura’ da parte loro degli Stati stessi, a volte attraverso metodi illegali e violenti.
Ancora, anche la politica della formazione in campo scientifico, oggi di estremo rilievo per la crescita produttiva e una volta prerogativa delle istituzioni scolastiche e universitarie statali, è fortemente influenzata dalle Big Tech e dai loro programmi formativi. Pur permanendo ancora, per quanto riguarda la ricerca, un rapporto con gli Stati che consente a questi attraverso proprie istituzioni – si pensi al DARPA americano (Defense Advanced Research Project Agency) – di guidare ancora in parte il progresso tecnologico. Ma resta indubbia la capacità delle grandi società di indirizzare appunto la ricerca attraverso la formazione dei ‘talenti’ e grazie a strumenti finanziari innovativi come i venture capitals, difficilmente utilizzabili dallo Stato.
L’esempio più richiamato dell’influenza che un soggetto privato, anche attraverso le sue società, può esercitare sulla scena globale in misura superiore a quella di tanti Stati, è Elon Musk. Non solo è l’uomo più ricco del mondo, ma condiziona attraverso contributi a partiti e movimenti di opinione e grazie ai suoi suoi canali comunicativi – si pensi ad X, già Twitter –, il processo di formazione delle coscienze, e quindi politico, specialmente negli USA; utilizza i propri strumenti, come Starlink, per intervenire nei conflitti militari; è partner indispensabile nella ricerca e nell’esplorazione spaziale, grazie a SpaceX; conduce battaglie a difesa di una estrema libertà di espressione; fa uso dei propri prodotti industriali, vedi Tesla, per indirizzare i processi di sviluppo in paesi diversi. E come lui si comportano tante altre società del settore, americane e cinesi in primo luogo.
Basta questo a qualificare le Big Tech come Stati? Tornando alla classificazione tradizionale, si potrebbe sostenere che esse si muovono in un territorio, lo spazio digitale, precedentemente ignoto, ma oggi definibile, utilizzabile e spesso fuori dal controllo dei governi; non hanno un popolo, ma ‘utenti’ che fanno spesso prevalere la loro qualità di consumatori su quella di cittadini; pur non potendosi parlare di sovranità esercitano poteri autoritativi, come ‘l’esilio’ dallo spazio digitale anche nei riguardi di utenti che violino ‘norme’ da esse stesse poste o previste dalla disciplina statale; favoriscono i processi di formazione e conoscenza scientifica; condizionano l’informazione e quindi la coscienza politica e gli esiti elettorali; sono attori importanti nello scenario globale.
Gli Stati reagiscono a questa ‘invasione di campo’: attraverso interventi delle autorità antitrust per limitare le posizioni monopolistiche o oligopolistiche; colpendo gli extra profitti; contrastando le fake news; disciplinando il commercio dei dati; sanzionando le violazioni alla privacy, ai copyrights e ad altri diritti.
Siamo tuttavia davanti a soggetti che si presentano appunto in modo diverso dai grandi conglomerati economici del passato, ed è comprensibile la preoccupazione di coloro che ritengono di trovarsi davanti a figure rispetto alle quali il rischio non è più solo quello, come detto, di una ‘cattura’ dello Stato da parte loro, ma addirittura quello della creazione di un sistema economico, finanziario, di formazione delle coscienze, di influenza sulle politiche interne e globali superiore a quello statuale: in crisi profonda quest’ultimo, per ragioni che qui non vogliamo esaminare, rispetto al modello westfaliano del 1648 e ai suoi più recenti sviluppi. Il tutto reso più complesso dall’emergere di un fenomeno, l’intelligenza artificiale, che vede le Big Tech in prima linea nella ricerca e nell’utilizzo. Un fenomeno rispetto al quale appaiono incerti, complessi e contraddittori i tentativi di regolazione.
Non abbiamo da proporre conclusioni o ricette: riteniamo solo che vada superata la contrapposizione tra catastrofisti e ottimisti sui due temi che abbiamo sommariamente indicato: le Big Tech, appunto, e l’intelligenza artificiale. Occorre una regolazione non di respiro nazionale o limitata a pochi Stati come quella dell’Unione Europea sull’intelligenza artificiale. È necessario il coinvolgimento di tutti gli stakeholders, a cominciare dalle stesse società, delle quali non vanno tuttavia ignorate le forti capacità di condizionamento; della comunità internazionale; della dottrina e certamente dei singoli Stati. Servono una regolazione e una autorità globale. E servono strumenti per assicurare il rispetto delle nuove norme da parte di tutti. Certamente, un vasto programma…
Alessandro Cavalli dice
Ci sono tre ambiti che nessuno stato per quanto potente è il grado di controllare: a. la proliferazione delle armi di distruzione di massa; b. il cambiamento climatico; c. big tech e big data. Sembra evidente l’esigenza di un governo mondiale, ma nessuno ha un’idea del percorso per raggiungerlo. Quando Kant lo ha pensato era troppo presto, i pessimisti dicono che ormai è troppo tardi. Almeno incominciamo seriamente a parlarne. Questo articolo di Malaschini è un buon segnale.