Sabino Cassese non è solo un prestigioso giurista ma può considerarsi, altresì, un autentico maître-à-penser per il pensiero democratico contemporaneo. Ne fanno fede non solo i libri che continua a pubblicare con invidiabile alacrità, ma anche gli articoli sui grandi organi di informazione in cui compendia, con una chiarezza che ricorda Norberto Bobbio, le sue tesi sul diritto e la politica. Proprio perché si tratta di una figura di studioso super partes—apprezzato anche da storici di scuola defeliciana come Francesco Perfetti—sono rimasto molto perplesso leggendo il suo articolo Democrazie. I cinque indizi di una crisi epocale, ’Corriere della Sera’ del 7 febbraio u.s. La perplessità deriva dall’ennesima constatazione dell’incapacità del pensiero liberale in senso lato—di cui Cassese può considerarsi un esponente autorevolissimo— di fare i conti con la comunità politica intesa come qualcosa di distinto dalle forme di governo. È come se, analizzando il funzionamento di una macchina, non si prendesse in considerazione l’ambiente in cui essa è chiamata a operare. I cinque indizi, elencati da Cassese, sono ineccepibili:
«In primo luogo, le democrazie mature, quelle che hanno un secolo di vita alle spalle, sentono il peso di un nobile passato. Hanno dato ascolto a molti e contraddittori interessi collettivi, dall’occupazione allo sviluppo, all’istruzione, alla protezione sociale, alla tutela dell’ambiente e dei beni culturali, e così via. Ma quando debbono decidere e devono mettere insieme tutti questi interessi, trovano difficoltà a stabilire quale di essi debba avere la prevalenza». Tutto questo è innegabile, ma in un certo senso non è sempre avvenuto così? Oggi il bargaining è più difficile che in passato dal momento che la nostra società si trova dinanzi a sfide sempre più inedite e complesse, anche in virtù dei processi di globalizzazione e delle nuove tecnologie che rimettono ogni volta in discussione programmi e progetti a lunga scadenza ma la difficoltà della transazione c’era anche prima.
«In secondo luogo, nelle democrazie contemporanee sono spariti quegli organismi che una volta avvicinavano i governanti ai governati, i partiti come associazioni. Le forze politiche hanno cambiato natura e sono divenute oligarchiche. Quindi, lo strumento principale della democrazia non è esso stesso democratico. Questa atomizzazione della società provoca una debilitazione dei parlamenti». Anche qui non si può non essere d’accordo. Ma qual è la ragione della trasmutazione ontologica dei partiti, ridotti ormai a deboli apparati che sanno di contare così poco da essere indotti a far scegliere il loro candidato alla guida del governo da quanti si trovano a passare per strada — e che, talora, facendo altre scelte politiche, sono indotti subdolamente a votare per candidati sicuramente perdenti — ? Cassese non lo dice, non si sa perché: forse pensa che al mondo ogni cosa «mortal passa e non dura», o si riferisce a cause talmente evidenti che «il tacere è bello».
«Nelle democrazie mature, in terzo luogo, mancano le grandi idealità che hanno mosso il mondo per due secoli, aggregando gli elettorati. Gli stessi portatori di interessi economici e sociali non riescono ad unirsi o a trovare convergenze. Quindi, l’offerta di politica è debole e frammentata». In realtà, non si riesce a vedere il nesso tra democrazie e «grandi idealità» se, con quest’espressione, si intendono le idee che ‘muovono il mondo’. Nessuna ambizione di questo genere ha ispirato le democrazie ‘a norma’, quelle dell’area scandinava o quella svizzera, che non hanno mai preteso di esportare il loro modello di ‘società aperta’ in tutto il pianeta, ma si sono limitate a realizzarlo ‘nel loro piccolo’, con indubbio successo.
«Il quarto fattore di crisi riguarda le attitudini dei governanti, per i quali la politica non è più passione, ma mestiere. Essi cercano di andare incontro alle pulsioni popolari, invece di guidare i sentimenti dei cittadini, e restano prigionieri di tali pulsioni. L’arte del governare si riduce all’arte del guadagnare voti, dimenticando quel che scrisse Luigi Einaudi tre quarti di secolo fa, che il disprezzo della popolarità è la virtù massima dell’uomo di Stato. Quindi, gli elettorati diventano instabili, volatili, apatici». Sono osservazioni di buon senso, ma ce le sentiamo ripetere da più di un secolo. La saggistica antiparlamentare—a cui sono state dedicate tante analisi storiografiche da Rodolfo De Mattei a Tommaso E. Frosini, da Mario Delle Piane a Ettore Cuomo—è piena di lamentazioni del genere. Che il disprezzo della popolarità sia la virtù massima dell’uomo di Stato lo sapevano bene i grandi condottieri dei popoli che hanno scritto la storia. Non è sempre vero, tuttavia, che l’impopolarità sia legata ai sacrifici richiesti ai cittadini. Winston Churchill non fu mai così popolare come negli anni bui in cui prometteva agli inglesi lacrime e sangue.
«Il quinto fattore sta nella sottovalutazione di quello che una volta si chiamava “l’ordine della ragione”. La possibilità di agire secondo ragione richiede di attivare processi cognitivi che aumentano la capacità dell’elettorato, mantengono il suo rapporto con i rappresentanti e consentono quel progresso del governo rappresentativo che consiste nell’estrarre dalla nazione gli uomini capaci e di metterli alla sommità dell’edificio sociale». Anche qui è difficile non concordare ma non rilevare, insieme, che un alto livello di educazione e di cultura non garantisce affatto «l’ordine della ragione». Tra persone informate e ragionevoli, l’accordo non è affatto scontato se i prezzi sono molto alti. E anzi parlare con ‘cognizione’ di causa può servire solo a evidenziare le ragioni che inducono ciascuna parte a mantenere le proprie posizioni.
A ben riflettere la crisi della democrazia è dovuta a un sesto fattore, il più rilevante di tutti: lo svuotamento simbolico e ideale della comunità politica—di cui lo stato nazionale è stato l’ultima incarnazione istituzionale. Solo se ci si sente parte di una ‘grande famiglia’ è possibile affrontare rinunce e disagi e sopportare le sconfitte che individui, classi, gruppi sociali si trovano a dover subire nella quotidiana struggle for life.
Nell’idea di nazione non sono iscritte né la libertà, né la democrazia, né il rispetto dei diritti umani—il nazionalismo, piaccia o no, appartiene allo stesso genus della nazione: ne sarà un figlio degenere ma la parentela è un fatto. La nazione, però, è il conto in banca della legittimità politica al quale possono attingere i governi quando le loro prestazioni confliggono con le attese dei governati.
Se stiamo assieme solo per far valere e rispettare i nostri diritti, perché dovremmo assicurare la nostra obbedienza a chi ci promette «lacrime e sangue?». Una società liberale coerente non a caso incontra non poche difficoltà nell’esigere il servizio militare dai suoi cittadini: quest’ultimi non avevano sottoscritto il pactum societatis proprio per mettere al sicuro la vita, la libertà e la proprietà?
I partiti erano i mediatori tra gli interessi delle classi e dei ceti che rappresentavano e il ‘bene pubblico’, ma se il bene pubblico è evanescente, o diventa il racconto di una ‘comunità immaginaria’, tra quali poli si eserciterà la mediazione? Sentirsi parte di un tutto ed essere pronti a sacrificargli tempo, denaro, persino il proprio corpo significa mettere a disposizione dei governi—per quelli democratici e liberali come per gli autoritari e dittatoriali— una risorsa incalcolabile. È un’arma spirituale che, allo stesso modo delle armi materiali in dotazione agli eserciti, può impiegarsi a qualsiasi scopo, come il denaro che può servire a ‘cantar messe’ o a corrompere un funzionario pubblico.
Prenderne coscienza significa, per gli amici della società aperta, convertire il liberalismo astratto in ‘liberalismo comunitario’, che non è l’ennesimo ircocervo che unisce cose diverse—la libertà e la comunità—ma è il liberalismo realistico, consapevole che le istituzioni e i diritti civili e politici o si radicano sul terreno delle famigerate ‘appartenenze’ o si costruiscono su mucchi di granelli di sabbia di individui slegati e indipendenti. Occorre, però, ribadire che le ‘appartenenze’ non sono demonizzate a torto quando la difesa della patria comporta la soppressione delle libertà politiche, come accadde durante la seconda guerra mondiale, quando eletti spiriti liberali, tra l’ ‘unità e la potenza della nazione’ e la restaurazione della democrazia, scelsero quest’ultima. Fecero benissimo—ed io avrei fatto la stessa scelta—ma la ‘morte della patria’ forse ha qualche rapporto con i fattori di crisi della democrazia, enumerati da Sabino Cassese.
Dino Cofrancesco dice
Caro Gianluca, La guerra è fatale a tutti i regimi, si tratti dei colonnelli greci o di quelli argentini. Però le sconfitte fanno cadere le dittature ma non le democrazie liberali..
GIANLUCA SADUN BORDONI dice
Giusto. Il problema è che le comunità politiche sono da sempre in guerra tra loro e, come diceva Churchill, “War is fatal to liberalism”.