I mezzi di informazione tendono a presentare e affrontare il conflitto in Ucraina non solo con categorie riduttive, ma addirittura alimentando una serie di contrapposizioni artificiose che certamente non giovano alla comprensione e al giudizio. Per riportare il dibattito su un binario più costruttivo ci si può iniziare a porre una serie di domande che non vengono poste o che vengono affrontate con categorie apodittiche. In un precedente intervento Emidio Diodato ha affermato che la storia degli equilibri internazionali è da riscrivere ed è forse proprio da qui che bisogna partire per andare oltre l’attuale dibattito pubblico.
Il tema in discussione
La Cina nella guerra russo-ucraina
Nel valutare la posizione cinese sull’invasione russa dell’Ucraina, occorre partire da alcuni dati formali. In occasione delle Olimpiadi di Pechino, il 4 febbraio 2022, Putin e XI Jinping fanno riferimento in una loro dichiarazione congiunta ad una «amicizia senza limiti» (amicizia, si noti, e non alleanza) tra i due paesi. Nel documento la Russia ribadisce che considera Taiwan «parte inalienabile della Cina», ma Putin non ottiene un esplicito riferimento all’Ucraina. Si afferma solo che entrambi i paesi si oppongono all’ampliamento della NATO e quindi, implicitamente, all’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica.
Aumentare le spese per la difesa? Parliamone!
La guerra in Ucraina ha sollevato una serie di domande a cui il dibattito politologico non può sottrarsi. Come anticipato da Emidio Diodato in un commento su queste pagine, gli studiosi di politica internazionale hanno il dovere di intervenire nel discorso pubblico e gli strumenti analitici necessari per uscire dalle secche di una polemica (ideologica o interessata che sia) ormai nauseante. Il tentativo di questo breve contributo è offrire alcuni spunti di riflessione rispetto all’impegno dichiarato dal governo italiano – insieme ad altri paesi europei – di incrementare le spese della difesa.
Prima di tutto è necessario esplicitare tre premesse. La prima è che, se l’impegno verrà mantenuto, si tratterà di un punto di svolta rispetto a un’avversione per le spese militari che in Europa si registra trasversalmente (con pochissime eccezioni) da decenni. La seconda premessa è che, come pare evidente dal dibattito attuale, il tema della difesa in Italia viene affrontato attraverso le spesse lenti dell’ideologia, con posizioni dogmatiche e una limitatissima disposizione al compromesso. La terza premessa è che i contratti per l’acquisizione di armamenti tendono a spalmare i costi su un arco temporale che può essere di decenni, per cui la variazione di spesa anno-su-anno può essere significativa. Ne consegue che, necessariamente, qualsiasi discorso sensato sul tema deve prevedere una pianificazione di medio-lungo periodo.
Ciò detto, occorre dare sostanza all’oggetto del contendere fornendo un minimo di inquadramento storico e qualche dato empirico. Alla base della dichiarazione di portare la spesa militare al 2% del PIL sta il cosiddetto NATO Defence Investment Pledge, ovvero l’impegno preso al vertice del Galles nel 2014 ad incrementare il bilancio della difesa fino al 2% del PIL entro il 2024 (non meno importante, occorre aggiungere, un secondo impegno prevedeva l’allocazione di almeno il 20% di queste spese per l’acquisizione di nuove armi). In sé, quindi, la posizione recentemente espressa dal Presidente del Consiglio Mario Draghi non dovrebbe costituire un motivo di stupore: andrebbe anzi letta come il tentativo di prestar fede a un impegno sottoscritto con gli alleati (in primis gli Stati Uniti) ormai otto anni fa.
Tuttavia, il dato grezzo relativo al bilancio della difesa negli ultimi anni – nonostante un significativo aumento a partire dal 2020 – dovrebbe sollevare almeno qualche nota di perplessità: secondo i dati dell’Agenzia Europea di Difesa, il rapporto tra spesa militare e PIL si è attestato attorno all’1,2% fino al 2019; è salito all’1,4 dal 2020 (più per effetto della contrazione dell’economia dovuta al COVID che per l’incremento della spesa) e si è attestato attorno all’1,35% nel 2021. In termini assoluti, mantenere l’impegno del 2% comporterebbe passare dai 22,4 miliardi attuali (dati Military Balance 2022) a circa 38. Insomma, anche con un orizzonte di sei anni, come è stato proposto dal ministro Guerini, si tratta di una variazione poco realistica.
Il dibattito pubblico, insomma, non dovrebbe incentrarsi sul come e quando raggiungere il traguardo del 2%, quanto sugli obiettivi e gli effetti di un eventuale incremento della spesa militare. Questo impone altri due quesiti, tra loro interconnessi, ben più urgenti. Il primo concerne l’allocazione delle risorse: come suddividere tra le varie voci di bilancio i fondi aggiuntivi? Le capacità (non solo armi, ma anche infrastrutture per le comunicazioni e la logistica) sono sicuramente una priorità, ma non meno importanti sono le spese per il personale (reclutamento e addestramento) e la manutenzione dei mezzi esistenti.
Il secondo concerne gli ambiti di utilizzo che si prevedono per le Forze Armate italiane: questo è forse il nodo centrale, poiché impone una riflessione (e forse una revisione) strategica approfondita. Da questo punto di vista, il Ministero della Difesa ha compiuto uno sforzo lodevole con la pubblicazione dell’ultimo Libro Bianco, nel 2015, e il Documento Programmatico Pluriennale del 2021. La guerra in Ucraina ha però minato alcuni assunti di questi documenti strategici – in primo luogo riportando al centro dell’attenzione i conflitti ad alta intensità.
In conclusione, come ricordava Angelo Panebianco ormai 25 anni fa nel libro Guerrieri democratici, la scelta tra welfare e warfare rappresenta per tutte le democrazie una decisione necessaria e talvolta lacerante. In Italia, salvo rare eccezioni (si pensi al caso dell’F-35) il discorso relativo alle spese militari è rimasto sistematicamente ai margini del dibattito pubblico. L’attenzione di cui gode in questo momento il tema delle spese per la difesa costituisce quindi un’occasione per interrompere questa prassi. E contribuire, in ultima istanza, a un coinvolgimento più attivo e maturo dell’opinione pubblica nel processo decisionale.
Finis Europae? L’UE e la guerra
La guerra russo-ucraina impone che ci si interroghi sul futuro dell’UE. L’integrazione europea è stata inizialmente ‘funzionale’, gli Stati mettevano assieme sforzi in ambiti socio-economici limitati, senza preoccuparsi della valenza politica di queste sinergie. Del resto non poteva esserci una valenza politica, perché la Guerra Fredda riduceva la sovranità internazionale europea, consegnava il problema della sicurezza continentale all’equilibro tra i due blocchi e agli Americani la garanzia dell’Europa occidentale.
Politologi con l’elmetto e ingegneria internazionale
La storia degli equilibri mondiali è da riscrivere, ma si sta scrivendo. Il pubblico ne pare avvertito e cerca di regolarsi. Ma è allevato dalla televisione e dai social e, sotto tutti gli aspetti, rimane altamente disinformato. O, come amava dire Sartori, malinformato. Allo stesso tempo il pubblico viene nutrito di una informazione emotiva, alimentata da immagini che fanno commuovere o arrabbiare: il che spesso surriscalda i problemi al di là della capacità di risolverli.
Comunicazione e pandemia. Le tre fasi
Nel quadrilatero comunicativo ai cui vertici si collocano gli attori politici, gli scienziati ed i medici, i media mainstream ed i social media, l’irruzione di Omicron e la velocità della sua propagazione rappresentano una rottura ed un punto di svolta rispetto alle fasi precedenti della copertura mediatica della pandemia. Quella della variante sudafricana è la terza fase; le prime due sono state caratterizzate, rispettivamente, dalla centralità della figura mitizzata del medico-eroe, e successivamente dall’irruzione del paradigma scientifico – il vaccino come arma risolutiva – e dei suoi rappresentanti (in primo luogo, virologi ed epidemiologi), con un ruolo di sostanziale subalternità degli attori politici.
Quale comunicazione è ‘buona’ per la democrazia?
Contro la democrazia è il titolo provocatorio ma onesto di un libro di Jason Brennan. Onesto, perché indica al lettore dove si andrà a parare. La democrazia – si legge nelle ultime pagine – rischia di consegnare il potere a un «re incompetente» che ha molte teste anziché una sola e da questa incompetenza possono derivare grandi danni per tutti. Le politiche che le persone difendono dipendono da ciò che esse sanno e le persone che sono rispettivamente bene e male informate non avranno la stessa opinione. Il principio che «uno vale uno» diventa pericoloso quando le seconde sono numerose.
A prima vista, questa citazione può apparire inappropriata per porre il problema della ‘buona’ informazione e comunicazione al tempo della Covid-19. Una larghissima maggioranza della popolazione dei paesi democratici, non solo in Italia, ha aderito alla campagna di vaccinazione e il problema è semmai costituito dal fatto che in questo caso anche una piccola minoranza, contrariamente a quanto si immaginava all’inizio, è sufficiente a mantenere alto il rischio per tutti. I più, insomma, si sono dimostrati bene informati e hanno fatto la scelta giusta. Ma è proprio su questo punto che il riconoscimento della rilevanza di ciò che le persone sanno (e di ciò che alle persone viene fatto sapere) ci invita a riflettere. Cosa significa l’informazione per la democrazia? Per quale modello di informazione ci si impegna scegliendo la democrazia?
Il ruolo della conoscenza può essere frainteso in due direzioni. La prima corrisponde a un sovraccarico di aspettative, ovvero all’idea che sia sufficiente sapere di più per trovarsi facilmente d’accordo. I meglio informati, a partire da ‘tecnici’ ed ‘esperti’, possono in realtà dividersi anche vivacemente sulle decisioni da prendere. Appunto perché si tratta di decisioni politiche, che devono tener conto di diversi beni e interessi e sono assunte in un contesto segnato dal pluralismo delle opzioni etiche. La tentazione fatale per la democrazia è però un’altra e investe il tema della fiducia senza paternalismo, cioè del rapporto che, in situazioni di insormontabile asimmetria informativa, consente di evitare la semplice ricaduta nel secondo, dal quale proprio la pratica medica ha preso congedo – non senza qualche sforzo – in questi ultimi decenni.
Uno degli esperti che la pandemia ci ha consentito di conoscere e apprezzare si è pronunciato con severa durezza, qualche settimana fa, nei confronti dei cattivi maestri che hanno contribuito a confondere la gente: sono troppi quelli che parlano senza una minima competenza e «non possiamo pensare che un attore, un filosofo parlino di medicina» al posto di chi ha studiato tanti anni per farlo. Si tratta di un’affermazione ovvia, che non si può non condividere. Il punto, però, è un altro.
Quando si tratta della propria salute, ciascuno ha il diritto di ricevere un’informazione completa, aggiornata e comprensibile, per poi assumere le decisioni, anche di rifiuto di un trattamento ‘scientificamente’ del tutto appropriato o addirittura indispensabile, che considera più coerenti con i suoi valori e il suo progetto di vita. Questo dovere degli esperti resta intatto di fronte a un’emergenza di salute pubblica, ma non assorbe automaticamente il momento della decisione. Una ‘buona’ comunicazione serve semmai a favorire la possibilità per attori e filosofi (e per tutti i cittadini) di partecipare anche in questo caso al dibattito pubblico sapendo di cosa parlano. E sempre con la consapevolezza che le conseguenze di quel che si sceglie di fare o non fare ricadono anche sugli altri.
La democrazia è impegnata, pena la sua riduzione alla formula – a quel punto davvero pericolosa – che assegna a ogni testa uno e un solo voto, a fare ogni sforzo per ridurre quella «fragilità epistemica» che Giovanni Boniolo, in un articolo su «Huffington Post» del 15 dicembre, ha definito come la situazione di «deficit e declino conoscitivo e argomentativo» che espone alcuni cittadini al rischio di diventare vittime di «imbonitori e cialtroni». È per questo che non potrà mai esserci una buona democrazia senza una buona scuola. Non è detto, peraltro, che ci sia sempre questa fragilità alla radice della diversità di opinioni che una democrazia cerca di includere e il fatto che gli esperti possano sentirsi obbligati a mettere in guardia dall’azione di imbonitori e cialtroni non è mai un bel segnale per una società di individui che si riconoscono e si rispettano come liberi ed eguali. Anche perché coloro che vengono etichettati in questo modo, probabilmente, non la prenderanno bene. Che fare, dunque, quando le scelte di pochi rischiano seriamente di danneggiare tutti, secondo il parere della gran parte degli scienziati? Cosa significa, in queste circostanze, continuare a fare una comunicazione che è ‘buona’ perché rispettosa delle premesse e degli obiettivi della democrazia?
Quando si tratta dei doveri di solidarietà dei quali parla l’articolo 2 della Costituzione, il gesto dell’imposizione viene facilmente percepito come una sconfitta: la solidarietà che si riesce a ottenere solo con la forza è una contraddizione in termini per una comunità che dovrebbe dimostrarsi tale nella vita e anche nei sacrifici di tutti i giorni oltre che sul piano dei principi fondamentali. Si spiega così l’insistenza sulla trasformazione della vaccinazione in vera e propria questione morale, in un crescendo di appelli nei quali le parole e i toni usati dalle autorità civili si sono spesso sovrapposti a quelli usati dalle autorità religiose. Il rischio implicito in questa opzione è però ovvio. Essa sposta il confronto dal piano delle norme da approvare e rispettare a quello di una contrapposizione fra cittadini ‘buoni’ e cittadini giudicati ‘male informati’ per evitare di liquidarli in blocco come semplicemente egoisti, incuranti del bene comune di fronte a una crisi di salute pubblica. Vale quanto ho già detto per coloro che vengono accusati di mettere in pericolo i concittadini epistemicamente fragili. È assai difficile che le persone accettino senza reagire di essere considerate ‘cattive’.
La via che si apre è a questo punto stretta, ma obbligata. È sbagliato pensare che le persone debbano essere in ogni modo ‘convinte’, anche perché può diventare più facile cedere alla tentazione dell’uso a fin di bene di tecniche come il framing o il cherry picking. Non è di questo tipo di comunicazione che ha bisogno una democrazia e per rendersene conto basta riflettere per un attimo sulla corsa che si rinnova ogni settimana al dato che, fra quelli proposti dall’Istituto Superiore di Sanità, colora di tinte più fosche il destino dei non vaccinati rispetto a quello dei vaccinati. L’informazione – lo ricordo – deve sempre essere completa, oltre che aggiornata e comprensibile, anche quando ciò potrebbe contribuire a mantenere qualche dubbio e qualche incertezza.
Sarebbe ugualmente sbagliato immaginare che una buona comunicazione diventi superflua nel momento in cui una democrazia sceglie infine di obbligare. Il suo ruolo diventa anzi, se possibile, ancora più importante, proprio perché devono esserci solide ragioni per un passo così forte, che può purtroppo diventare, a un certo punto, inevitabile. Non ci si deve stancare di proporre queste ragioni, anche perché la grande maggioranza dei cittadini italiani ha già dimostrato di apprezzarle. Guadagnandosi così il diritto di sapere sempre tutto, di sapere anche che qualche errore è stato probabilmente commesso e che non tutti i dati corrispondono a ciò che avevamo sperato e che vorremmo.
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