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Quel che serve per un sistema elettorale decente

22 Gennaio 2017 di Marco Valbruzzi 1 commento

Il 24 gennaio i giudici della Corte ci faranno conoscere il loro parere sulla costituzionalità dell’Italicum e tutti assieme, non proprio appassionatamente, torneremo a discutere del nuovo – l’ennesimo – sistema elettorale in grado di risollevare la fiacca democrazia italiana. Ricomincerà l’eterna discussione tra i proporzionalisti e i maggioritaristi (per non dire dei «mististi», molto in voga nel nostro paese, e cioè quelli che vorrebbero «un po’ e un po’», convinti che per scovare il Sacro Graal dei sistemi elettorali basti mettere assieme «il meglio dei due mondi»); ci saranno coloro che in modo truffaldino suggeriranno ai potenti di turno la loro miscela magica in grado di garantire, in un sol colpo, rappresentatività e governabilità; non mancheranno poi i «simulatori», ossia quello stuolo di esperti elettorali, di ogni ordine e grado, che simuleranno scenari ipotetici sulla base di assunti irrealistici e di leggi elettorali alquanto improbabili; infine, verranno riesumati i latinisti della domenica, quelli che non hanno ancora capito che il gioco di affibbiare nomignoli col latinorum alle nostre vicissitudini elettorali è bello finché dura poco e, soprattutto, fino a quando non ci fa perdere di vista l’importanza della questione.

Se questo è tutto quello che ci aspetta, almeno per i prossimi tre o quattro mesi, ritengo sia utile fare un po’ di chiarezza su alcuni nodi fondamentali attorno ai quali verterà l’intero dibattito elettoralistico. Due, in particolare, mi paiono le questioni che meritano di essere approfondite e sulle quali intendo concentrarmi. La prima è l’idea di governabilità che, nell’assurda declinazione che ne danno i nostri soi-disants riformatori, è diventata soltanto un modo diverso/perverso per sostenere che i sistemi elettorali, nessuno escluso, debbano «fabbricare» maggioranze, e cioè trasformare minoranze elettorali, spesso infime, in maggioranze parlamentari. In questo modo, la (fraintesa) governabilità diventa soltanto una formula matematica, un prodotto di più o meno complessi algoritmi in grado di costruire maggioranze out of the blue, dal nulla. Allo stesso tempo, questa concezione – puramente aritmetica – offre enormi alibi ai nostri governanti: se non si raggiunge l’agognata governabilità, la colpa è sempre dei meccanismi elettorali imperfetti e mai dei «manovratori».

Fig. 1 – Maggioranze «naturali» e maggioranze «fabbricate» in 17 democrazie europee dal 1945 al 2016 (%)

immagine valbruzzi

Purtroppo, questa visione errata della governabilità, intesa scioccamente soltanto come stampella istituzionale per partiti traballanti, ha preso piede solo in Italia. Quasi dappertutto in Europa (vedi fig. 1), le maggioranze di governo non sono minoranze «camuffate» o premiate dallo specifico funzionamento dei sistemi elettorali, ma sono il frutto di accordi elettorali o parlamentari tra partiti relativamente affini che decidono di assumersi l’onere del governo per un periodo più o meno limitato di tempo. Al massimo, a parte alcune eccezioni (come la Francia o il Regno Unito, dove si vota con sistemi maggioritari in collegi uninominali), i meccanismi elettorali servono ad “irrobustire” maggioranze di governo, in modo tale da proteggerle dai ricatti di piccoli partiti o correnti. Ma non si può chiedere alle leggi elettorali di «assicurare» – addirittura la sera stessa delle elezioni – la formazione di una maggioranza in parlamento a partire da una minoranza di consensi nella società. È lungo questa china che la governabilità perde il suo significato originario e diventa un furbesco feticcio al quale si aggrappano tutti quei politici che non riescono a costruire credibili progetti di governo.

La seconda questione da precisare riguarda l’essenza stessa dei sistemi elettorali. Prima di azzuffarci attorno alle soglie di sbarramento, al grado di proporzionalità nella traduzione dei voti in seggi, ai ballottaggi più o meno eventuali dovremmo avere ben chiaro a che cosa servono i sistemi elettorali. Purtroppo, anche in questo caso il dibattito italiano sembra del tutto fuori fuoco, completamente concentrato su aspetti secondari, ad esempio la ricerca spasmodica del mix ottimale tra rappresentatività e governabilità (entrambe, peraltro, ampiamente equivocate). Prima di tutto e soprattutto, i sistemi elettorali servono a dare agli elettori il potere di scegliere parlamentari capaci di offrire reale rappresentanza ai loro concittadini e di prendere decisioni efficaci in tempi ragionevoli.

Per troppi anni abbiamo perso di vista il fatto che il miglior sistema elettorale è quello che favorisce la selezione e la formazione della migliore classe politica. E così siamo passati da un sistema elettorale (Mattarellum) che aveva cominciato a produrre i suoi benefici sulla qualità della rappresentanza parlamentare a sistemi (Porcellum e, in misura minore, Italicum) che hanno – o avrebbero – prodotto una «casta» di auto-nominati senza alcuna qualità, se non quella di una cieca fedeltà ai capi o capetti di partito ai quali devono la loro rielezione. Soltanto se la discussione sulla prossima legge elettorale ripartirà dall’essenziale, superando slogan sbagliati e fuorvianti, sarà possibile giungere a risultati positivi per la democrazia italiana e per i suoi cittadini.

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Tre sistemi elettorali a confronto: Mattarellum, Porcellum e Italicum

19 Gennaio 2017 di Gianfranco Pasquino Lascia un commento

Restaurare non è mai una scelta apprezzabile soprattutto perché, quando sono coinvolti uomini e donne, e non statue e quadri, è impossibile riavvolgere il tempo. Cambiano gli uomini, cambiano le donne, entrambi imparano, il tempo passa e crea nuove situazioni. Dunque, non si “restaurerà” il Mattarellum che abbiamo conosciuto e che, utilizzato in tre elezioni, produsse esiti di volta in volta migliori. Riflettendo su vent’anni di elezioni e tre sistemi elettorali, è possibile fare meglio.

Qui cercherò in maniera sintetica di esaminare gli effetti del Mattarellum e del Porcellum paragonandoli a quelli proposti e promessi dall’Italicum che mai fu. Un sistema elettorale, tutti i sistemi elettorali debbono essere valutati, anzitutto, con riferimento al potere che danno agli elettori, in secondo luogo, con riferimento al Parlamento che eleggono, in terzo luogo, con riferimento alla formazione del governo. Il potere degli elettori varia a seconda che possano votare solo per un partito oppure anche per il candidato che li rappresenterà oppure anche per la coalizione preferita. Nelle democrazie parlamentari, gli elettori non votano mai per il governo. Il loro voto dà vita ad un parlamento nel quale si formerà il governo che da quel parlamento potrà essere “rimpastato” oppure sostituito nella sua interezza.

Tenendo a mente questi cinque elementi (scelta dei candidati, voto ai singoli partiti, elezione dei parlamentari, indicazione delle coalizioni, formazione del governo), è possibile costruire un indice che misuri il potere elettorale complessivo dei cittadini. A ciascun elemento sarà assegnato un punteggio che va da 0 (nullo) a 3 (massimo), con punteggi intermedi che indicano un potere ridotto (1) o medio (2). L’indice di “potere degli elettori” andrà, dunque, da 0 (nessun potere agli elettori) a 15 (massimo potere elettorale).

Partiamo dal Mattarellum. Questo sistema consentiva di votare per i candidati nei collegi uninominali e, alla Camera, anche per liste di partito. Dal momento che gli imperativi elettorali spingevano alla formazione di coalizioni pre-elettorali a sostegno dei candidati nei collegi uninominali, gli elettori avevano anche la possibilità di scegliere fra coalizioni che si candidavano al governo. La tabella che segue sintetizza questi elementi.

Potere degli elettori su: Punteggio Mattarellum Punteggio Porcellum Punteggio Italicum
Candidati 2 0 1
Partiti 2 1 2
Parlamento 1 1 2
Coalizioni 3 2 0
Governo 2 1 3

Nel caso dei candidati il punteggio non può essere il più elevato poiché grande fu il numero dei candidati paracadutati, quindi, 2. Per quel che riguarda le coalizioni sempre si trasformarono in governi. Quindi, 3. Le coalizioni “mascheravano”, almeno in parte, i partiti, quindi, punteggio 2 per il voto di partito. Nel caso del Parlamento, tenendo conto dell’alto numero dei trasformisti, il punteggio deve essere non più di 1. Soltanto inizialmente i governi furono espressione delle coalizioni. In nessuna delle tre elezioni 1994, 1996, 2001, il governo che aveva iniziato la legislatura riuscì a concluderla. La composizione dei governi cambiò, rispettivamente: molto nel 1996, abbastanza nel 2001, poco nel 2006 (punteggio 2).

Molto diversi sono stati gli effetti del Porcellum, un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione che ottiene il più alto numero di voti e liste bloccate.

Con il Porcellum, gli elettori erano confinati a tracciare una crocetta sul simbolo della coalizione e nulla più in questo modo acconsentendo all’elezione dei candidati nell’ordine deciso dai capipartito (punteggio 0). I simboli dei partiti coalizzati erano visibili (punteggio 1), ma nell’opzione di voto la coalizione ha sicuramente avuto il sopravvento (punteggio 2). Anche i parlamenti eletti con il Porcellum (2006, 2008, 2013) sono stati caratterizzati dalla comparsa di un alto numero di trasformisti (punteggio 1). I governi ai tempi del Porcellum sono stati molti. Pochi derivanti dall’esito elettorale: Prodi 2006-2008 e Berlusconi 2008-2011. Altri nacquero in corso d’opera: Monti 2011-2012; Renzi 2014-2016; Gentiloni 2016-2017. Il governo Letta 2013-2014 è un mix, soltanto in parte conseguenza dell’esito elettorale (punteggio 1).

   Per quel che riguarda l’Italicum, la legge che, secondo Matteo Renzi (e i suoi corifei), “tutta l’Europa ci avrebbe invidiato e metà Europa avrebbe imitato”, stiamo parlando, tecnicamente, di un aborto: una legge nata morta. Tuttavia, mentre attendiamo la probabilmente inutile e sicuramente tardiva sentenza della Corte Costituzionale, possiamo valutare quelli che sarebbero stati i suoi potenziali effetti.

All’incirca il 60 per cento dei parlamentari diventerebbe tale per designazione dei capipartito/capicorrente (punteggio 1). I rimanenti avrebbero dovuto conquistarsi i voti di preferenza (disprezzatisssimi da molti corifei). Gli elettori sono costretti a votare i partiti (punteggio 2). Il parlamento potrebbe comunque esibire un alto numero di trasformisti (punteggio 2). Nessuna coalizione avrebbe interesse a formarsi (punteggio 0). Al ballottaggio gli elettori attribuirebbero un premio in seggi che consentirebbe/obbligherebbe il partito vittorioso a governare (punteggio 3). In buona misura questo sistema avrebbe, da un lato, fortemente distorto la rappresentanza politica e enormemente ridimensionato il ruolo del Parlamento, dall’altro, avrebbe prodotto la fuoruscita dal modello di governo parlamentare delineato nella Costituzione italiana.

Il punteggio complessivo comparato, per i tre sistemi elettorali, è indicato nella figura 1.

immagine pasquino

Alla luce di questa graduatoria comparata, c’è molto da lavorare per soprattutto per quei riformatori elettorali che mirino, ancora una volta, presuntuosamente, a inventare qualcosa che tutta l’Europa ci invidierebbe, invece di imitare il meglio che in Europa funziona da almeno cinquanta e più anni.

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Il ritorno del Mattarellum?

17 Gennaio 2017 di La redazione Lascia un commento

Con il post di Marta Regalia di lunedì scorso abbiamo aperto una discussione sulle leggi elettorali. Intendiamo offrire materiale per la riflessione e l’azione ai giudici costituzionali e ai parlamentari che dovranno impegnarsi a scrivere una buona, non perfetta, legge elettorale per l’Italia, in grado di dare rappresentanza ai cittadini e durare nel tempo. A seguire pubblicheremo un contributo di Gianfranco Pasquino (venerdì 20) e uno di Marco Valbruzzi (lunedì 23).

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Mattarellum, chi era costui?

15 Gennaio 2017 di Marta Regalia Lascia un commento

Nate dalle ceneri dei referendum del 1991 (sulla preferenza unica) e, soprattutto, del 1993 (che trasformò la legge elettorale del Senato in una legge propriamente maggioritaria), le leggi 276 e 277 del 4 agosto 1993 davano vita ad un sistema elettorale misto ribattezzato da Giovanni Sartori “Mattarellum” dal nome del suo relatore, l’attuale Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Oggi, quasi 24 anni e due leggi elettorali dopo, da più parti si auspica la reviviscenza di tale sistema. Ma come funzionava il cd. Mattarellum? In questo primo intervento sul tema dal forum di Paradoxa cercherò di illustrarne i meccanismi e le particolarità, oltre ad alcuni effetti. Interventi successivi punteranno l’attenzione su aspetti più specifici in relazione ad altre componenti del sistema politico. Stay tuned!

In quanto sistema misto, il Mattarellum prevedeva due metodi di attribuzione dei seggi su basi diverse: una maggioritaria ed una proporzionale. 475 seggi alla Camera e 232 al Senato (e cioè il 75%) erano attribuiti con sistema maggioritario uninominale a turno unico. In ogni collegio, vinceva il seggio il candidato che otteneva la maggioranza relativa dei voti. Il restante 25% (e cioè 155 seggi alla Camera e 83 seggi al Senato) veniva invece assegnato con sistema proporzionale. Le similitudini tra i due rami del Parlamento, tuttavia, finiscono qui. Le altre caratteristiche del Mattarellum, sebbene spesso sottovalutate, differivano tra Camera e Senato, con esiti non trascurabili.

Per prima cosa, gli elettori avevano a disposizione due voti per la Camera dei Deputati (uno per la parte maggioritaria ed uno per la parte proporzionale) ed un solo voto per il Senato (per il candidato nella parte maggioritaria, che non poteva presentarsi in più di un collegio). Ciò comportava principalmente due conseguenze: primo, gli elettori potevano esprimere un voto disgiunto, votando strategicamente per l’uninominale e sinceramente per il proporzionale, solo alla Camera; secondo, al Senato venivano eletti i migliori candidati perdenti all’uninominale e quindi, affinché i voti non andassero persi in caso di non vittoria all’uninominale, i candidati di un partito in ogni regione dovevano essere tra loro collegati in vista del recupero proporzionale.

Secondariamente, i seggi proporzionali erano distribuiti, alla Camera, su 26 circoscrizioni con metodo Hare (e resti più elevati), mentre al Senato su base regionale con metodo d’Hondt. Ciò garantiva esiti maggiormente proporzionali nel primo caso, essendo la formula Hare estremamente proporzionale, soprattutto se comparata alla formula d’Hondt, la meno permissiva tra le formule proporzionali. Tuttavia, il meccanismo dello scorporo totale al Senato, che vedremo successivamente, permetteva la rappresentanza anche dei partiti più piccoli.

In terzo luogo, per la parte proporzionale, alla Camera erano previste liste bloccate e una soglia di sbarramento del 4% a livello nazionale, mentre al Senato non era prevista alcuna soglia, nemmeno a livello regionale, e una sorta di “graduatoria” dei candidati perdenti nella parte maggioritaria (ordinata secondo le percentuali ottenute nei rispettivi collegi) sostituiva le liste bloccate della Camera.

Infine, le due leggi elettorali prevedevano entrambe un meccanismo chiamato “scorporo” che aveva il fine di non sovra-rappresentare i partiti che avevano già ottenuto seggi nella parte uninominale, ma che veniva però messo in pratica in maniera diversa per l’elezione dei due rami del Parlamento. Alla Camera, lo scorporo era “parziale”: ciò significava che, al momento del computo dei voti per la quota proporzionale, ad ogni lista venivano attribuiti tanti voti quanti quelli ottenuti nella parte proporzionale, meno, per le liste che avevano ottenuto seggi nella parte uninominali, un numero di voti pari al secondo classificato in quel collegio uninominale più uno. Se il candidato vincente all’uninominale era collegato a più liste, lo scorporo avveniva in proporzione al numero di voti ottenuti da ciascuna lista. Al Senato, invece, lo scorporo era “totale”: tutti i voti che non erano serviti per eleggere un candidato (quindi tutti i voti, tranne quelli del candidato vincitore all’uninominale) venivano sommati su base regionale, partito per partito.

Con il Mattarellum gli italiani si recarono alle urne tre volte: nel 1994, nel 1996 e nel 2001. Nel 2001, per eludere, alla Camera, l’effetto compensativo della quota proporzionale, i partiti maggiori fecero ricorso alle cd. “liste civetta”. Vennero cioè appositamente create e presentate delle liste senza una reale forza elettorale alle quali i candidati nella parte uninominale dichiaravano il collegamento. In questo modo, lo scorporo avvenne ai danni di queste liste minori (Paese Nuovo per il centrosinistra e Abolizione Scorporo per il centrodestra), con poche probabilità di superare la soglia del 4% a livello nazionale, e senza intaccare quindi i voti ottenuti dalle liste maggiori con il voto nella parte proporzionale. Curiosamente, il trucchetto si ritorse contro la coalizione di centrodestra: l’abuso delle liste civetta impedì infatti a Forza Italia di ottenere tutti i seggi che le sarebbero spettati se non avesse fatto ricorso alle liste civetta. La lista di Forza Italia, infatti, aveva diritto a 62 seggi, ma disponeva di soli 55 candidati in quanto gli altri erano stati collegati ad abolizione scorporo. Al problema di questi 7 seggi, si aggiunse quello degli eletti in più di una circoscrizione. Ne conseguì una legislatura senza plenum.

 

Quali furono gli effetti del Mattarellum sul formato del sistema partitico? Indubbiamente, il sistema “misto-compensativo” non riuscì a ridurre la frammentazione. Secondo Sartori, se il sistema proporzionale in vigore fino al 1992 aveva prodotto 5/6 partiti rilevanti, il Mattarellum li triplicò. E questo non fu dovuto alla parte proporzionale, bensì alla quota maggioritaria, che concedeva ai piccoli partiti un significativo potere di ricatto. Da questo punto di vista, quindi, il Mattarellum non ebbe successo. Tuttavia, esso fu in grado di dare il via ad una stagione caratterizzata da coalizioni pre-elettorali, competizione bipolare e di alternanza al governo.

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Il nesso politica estera/politiche migratorie nel ‘migration compact’

12 Gennaio 2017 di Emidio Diodato 1 commento

Ha ragione Fulvio Attinà quando scrive (commento del 17/11/16) che non è sempre chiaro a cosa ci si riferisca con ‘migration compact’ e che certamente non può essere un programma di aiuti (allo sviluppo) dei paesi di origine e di transito affinché si tengano i migranti.

Proprio per questa ragione credo sia utile ripartire dal documento che l’ex-primo ministro italiano inviò il 15 aprile 2016 ai presidenti di Consiglio e Commissione dell’UE. L’obiettivo del documento, noto come ‘migration compact’, era contribuire alla progettazione di una strategia di ‘azione esterna’ in materia di migrazione. Benché scritto in modo generico, essendo un semplice contributo di pensiero (non-paper), il documento si basò sulla convinzione italiana che tutte le iniziative e gli strumenti europei nel campo dell’azione esterna avrebbero dovuto essere diretti (in modo coerente con le iniziative e gli strumenti interni) allo sviluppo di una strategia europea più attiva, puntando in primo luogo sui paesi africani di origine e di transito del fenomeno migratorio.

Da questa convinzione derivano, a mio parere, due punti qualificanti: 1) l’identificazione dei principali paesi con cui cooperare definendo il tipo di collaborazione da sviluppare con ciascuno di essi (l’Italia si proponeva per la Libia); 2) l’emissione di bond europei per finanziare le azioni, attivando il Servizio europeo per l’azione esterna che prevede il coordinamento e la divisione del lavoro tra i paesi membri dell’UE secondo il principio della ‘cooperazione delegata’.

Il meccanismo solidale di distribuzione delle obbligazioni finanziarie a livello europeo, da una parte, e il tipo di ‘cooperazione delegata’ da sviluppare con ciascun paese, dall’altra, restano senza dubbio punti di riferimento tanto ambiziosi quanto lontani dalla realtà odierna. Il nuovo governo guidato da Gentiloni non è nelle condizioni di riaprire il dossier. Quando era ministro degli esteri, Gentiloni prese posizione sul possibile ruolo italiano nel Mediterraneo. In un intervento del 28 maggio 2015 sulla rivista Foreign Affairs, enfaticamente titolato ‘Pivot to the Mediterranean’, l’attuale capo del governo scrisse che si trattava non soltanto della frontiera meridionale dell’Europa, ma anche di un crocevia geopolitico dove si giocava la sicurezza globale. Da quell’intervento ebbe inizio la fase più intensa che portò, il 28 giugno 2016, alla conquista di un seggio per l’Italia come membro non permanente in Consiglio di sicurezza. L’elezione, scaturita da un accordo di compromesso (l’Italia manterrà il seggio solo per il 2017), fu il principale risultato ottenuto da Gentiloni alla Farnesina. Penso che questo abbia avuto un peso sulla sua nomina alla guida del nuovo governo. Tuttavia, al netto delle debolezze interne, oggi il quadro internazionale è mutato e l’Italia, che ha ottenuto quel seggio proprio sulla scorta del suo possibile impegno nel Mediterraneo, non gode più del sicuro sostegno da parte degli Stati Uniti.

Tuttavia, la convinzione espressa nel ‘migration compact’ ha un valore per la politica estera italiana che va al di là della contingenza politica. Un legame tra scelte di politica estera e politiche sull’immigrazione emerge chiaramente già prima che l’Italia divenisse una frontiera europea. Si pensi alla prima legge in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari, la legge Foschi del 1986, che seguì l’esclusione dell’Italia dagli accordi di Schengen nel 1985; all’iter di approvazione della legge Martelli tra dicembre 1989 e febbraio 1990, influenzato dagli effetti del crollo dei regimi comunisti, in particolare dalla crisi albanese; fino alla legge Turco-Napolitano, approvata durante il primo governo Prodi, quando l’Italia, come enfaticamente si disse, fece il suo ‘ingresso in Europa’ (moneta e frontiere comuni). Le sfide di politica estera e le scelte italiane si sono intrecciate a più riprese, con maggiore o minore consapevolezza, al tema dell’immigrazione.

Certo, la materia delle politiche migratorie a livello europeo resta molto complicata. Come ha ricordato Attinà (commento del 23/11/16), occorrerebbe far chiarezza su chi cerca rifugio oppure lavoro, sul significato della ‘migrazione forzata’, per non parlare della relazione tra problemi di migrazione e problemi di sicurezza e antiterrorismo. Il documento italiano dell’aprile 2016 è un contributo appena sufficiente per impostare una disamina delle iniziative e degli strumenti più idonei per la cooperazione con i diversi paesi africani di origine e di transito. Ma resta, a mio parere, un tassello necessario per impostare una riflessione sul nesso tra politica estera e politiche migratorie. Il fatto di essere divenuta, l’Italia, una frontiera dell’UE impone al governo un ruolo attivo in materia di gestione e controllo dei flussi migratori nel quadro di politiche e finanziamenti europei e in collaborazione con i paesi africani.

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Etica e politica delle migrazioni

1 Dicembre 2016 di Riccardo Pozzo Lascia un commento

piccola-piccola-schngen1.  La crisi dei migranti pone l’Italia e l’Europa davanti a una sfida le cui dimensioni sono comparabili alla sfida posta dalla crisi ecologica dell’ultimo quarto del secolo scorso, crisi che fu superata grazie a un enorme sforzo di ricerca, che portò a una riconversione industriale e un cambiamento nella mentalità dei cittadini.

2. La discussione sui migranti coinvolge stolidi e feroci pregiudizi, che vanno combattuti e sfatati a trecentosessanta gradi. Le migrazioni richiedono un analogo approccio multidisciplinare, che coinvolge le scienze umane, le scienze sociali, le scienze religiose e il patrimonio culturale con medicina, matematica, fisica, chimica, scienze della vita, scienze dell’ambiente, trasporti, agroalimentare e data science; ed è questo l’approccio scelto dai ricercatori del Cnr, che hanno già avuto importanti risultati in Italia e in Europa.

[Per saperne di più…]

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Dall’accoglienza all’integrazione

24 Novembre 2016 di Adriano Fabris 2 commenti

piccola-piccola-schngenHa ragione Stefano Zamagni a delineare, con il consueto acume, le novità dell’attuale, complesso panorama dei flussi migratori, soprattutto tenendo conto delle loro conseguenze economiche. Del tutto condivisibile è pure il suo richiamo all’inadeguatezza delle politiche in merito messe in opera sia a livello nazionale, sia a livello europeo. A ciò va aggiunto il fatto che questioni decisive non solo per la loro portata globale, ma per il futuro stesso del nostro continente diventano spesso solo pretesti per uno scontro politico di basso profilo, e per cavalcare un populismo sempre più ottuso e feroce.

Zamagni propone un “migration compact” da gestire a livello europeo riequilibrando le diseguaglianze relative alle possibilità d’accoglienza che vi sono tra i diversi, singoli paesi. L’idea è più che giusta: una centralizzazione risulta necessaria nella misura in cui, per gestire tali aspetti, è indispensabile un coordinamento politico.
Il rischio però è che si ripresentino di nuovo quelle derive burocratiche e quella ricerca di un’unanimità decisionale a tutti i costi, peraltro impossibile su alcuni temi, che hanno finora bloccato, insieme ad altri fattori, l’attivazione di efficaci politiche congiunte. Il rischio è che l’Europa finisca per dimostrare ancora una volta la sua impotenza.

L’alternativa è comunque il consolidarsi di una situazione che già adesso è insostenibile. Impossibilitati a trasferirsi altrove, i migranti si fermano nei luoghi di prima accoglienza. Per l’inadempienza di alcuni Stati la ripartizione secondo “quote”, approvata a suo tempo da Bruxelles, è ormai fallita. Nella Comunità europea manca proprio il senso di comunità.

Siamo dunque rinviati, nuovamente, alle scelte politiche nazionali. E allora il punto vero nel caso dei fenomeni migratori si rivela, a mio parere, la necessità di andare oltre la gestione dell’accoglienza. Su questo versante l’Italia sta impegnandosi moltissimo. Ma l’accoglienza è realizzata sempre in cui contesto emergenziale. Anzi: dalla logica dell’emergenza non riesce a uscire.

L’accoglienza gestita in termini emergenziali comporta conseguenze non volute. I centri di prima accoglienza diventano luoghi stabili di soggiorno, talvolta ai limiti della decenza. L’inserimento dei migranti in un contesto culturale e comportamentale diverso, anche in via provvisoria, viene affrontato come un problema di ordine pubblico: peraltro in maniera spesso inefficace a causa della scarsità dei mezzi a disposizione delle forze dell’ordine. La stessa accoglienza, prolungandosi indefinitamente, da un lato crea nuovi poveri, impossibilitati (per motivi burocratici e per mancanza di opportunità a causa crisi economica) ad accedere al mondo del lavoro, e dall’altro produce le comprensibili reazioni di chi dalla crisi economica è da più tempo colpito.

Da questa situazione si esce solo passando dall’accoglienza all’integrazione. È a questo scopo che dovrebbero essere rivolti, da ora in poi, ulteriori sforzi: sforzi che non possono essere determinati solo dal caso, o vincolati alla buona volontà di alcune istituzioni meritoriamente impegnate nel sociale. Costruendo percorsi d’integrazione possono infatti essere creati nuovi posti di lavoro e favorita la crescita per un paese che, altrimenti, si appresta a costruire solo ghetti.

Questa è la sfida vera che ci attende. Se essa debba essere accolta da un singolo paese, come ad esempio l’Italia, o dall’Europa intera, o da entrambi, tenendo conto delle rispettive competenze, è una questione che potrà essere negoziata. L’importante è partire subito. Peggio, molto peggio, è lasciar andare le cose per il loro verso. Come sta avvenendo ora.

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