La storia degli equilibri mondiali è da riscrivere, ma si sta scrivendo. Il pubblico ne pare avvertito e cerca di regolarsi. Ma è allevato dalla televisione e dai social e, sotto tutti gli aspetti, rimane altamente disinformato. O, come amava dire Sartori, malinformato. Allo stesso tempo il pubblico viene nutrito di una informazione emotiva, alimentata da immagini che fanno commuovere o arrabbiare: il che spesso surriscalda i problemi al di là della capacità di risolverli.
Il tema in discussione
Comunicazione e pandemia. Le tre fasi
Nel quadrilatero comunicativo ai cui vertici si collocano gli attori politici, gli scienziati ed i medici, i media mainstream ed i social media, l’irruzione di Omicron e la velocità della sua propagazione rappresentano una rottura ed un punto di svolta rispetto alle fasi precedenti della copertura mediatica della pandemia. Quella della variante sudafricana è la terza fase; le prime due sono state caratterizzate, rispettivamente, dalla centralità della figura mitizzata del medico-eroe, e successivamente dall’irruzione del paradigma scientifico – il vaccino come arma risolutiva – e dei suoi rappresentanti (in primo luogo, virologi ed epidemiologi), con un ruolo di sostanziale subalternità degli attori politici.
Quale comunicazione è ‘buona’ per la democrazia?
Contro la democrazia è il titolo provocatorio ma onesto di un libro di Jason Brennan. Onesto, perché indica al lettore dove si andrà a parare. La democrazia – si legge nelle ultime pagine – rischia di consegnare il potere a un «re incompetente» che ha molte teste anziché una sola e da questa incompetenza possono derivare grandi danni per tutti. Le politiche che le persone difendono dipendono da ciò che esse sanno e le persone che sono rispettivamente bene e male informate non avranno la stessa opinione. Il principio che «uno vale uno» diventa pericoloso quando le seconde sono numerose.
A prima vista, questa citazione può apparire inappropriata per porre il problema della ‘buona’ informazione e comunicazione al tempo della Covid-19. Una larghissima maggioranza della popolazione dei paesi democratici, non solo in Italia, ha aderito alla campagna di vaccinazione e il problema è semmai costituito dal fatto che in questo caso anche una piccola minoranza, contrariamente a quanto si immaginava all’inizio, è sufficiente a mantenere alto il rischio per tutti. I più, insomma, si sono dimostrati bene informati e hanno fatto la scelta giusta. Ma è proprio su questo punto che il riconoscimento della rilevanza di ciò che le persone sanno (e di ciò che alle persone viene fatto sapere) ci invita a riflettere. Cosa significa l’informazione per la democrazia? Per quale modello di informazione ci si impegna scegliendo la democrazia?
Il ruolo della conoscenza può essere frainteso in due direzioni. La prima corrisponde a un sovraccarico di aspettative, ovvero all’idea che sia sufficiente sapere di più per trovarsi facilmente d’accordo. I meglio informati, a partire da ‘tecnici’ ed ‘esperti’, possono in realtà dividersi anche vivacemente sulle decisioni da prendere. Appunto perché si tratta di decisioni politiche, che devono tener conto di diversi beni e interessi e sono assunte in un contesto segnato dal pluralismo delle opzioni etiche. La tentazione fatale per la democrazia è però un’altra e investe il tema della fiducia senza paternalismo, cioè del rapporto che, in situazioni di insormontabile asimmetria informativa, consente di evitare la semplice ricaduta nel secondo, dal quale proprio la pratica medica ha preso congedo – non senza qualche sforzo – in questi ultimi decenni.
Uno degli esperti che la pandemia ci ha consentito di conoscere e apprezzare si è pronunciato con severa durezza, qualche settimana fa, nei confronti dei cattivi maestri che hanno contribuito a confondere la gente: sono troppi quelli che parlano senza una minima competenza e «non possiamo pensare che un attore, un filosofo parlino di medicina» al posto di chi ha studiato tanti anni per farlo. Si tratta di un’affermazione ovvia, che non si può non condividere. Il punto, però, è un altro.
Quando si tratta della propria salute, ciascuno ha il diritto di ricevere un’informazione completa, aggiornata e comprensibile, per poi assumere le decisioni, anche di rifiuto di un trattamento ‘scientificamente’ del tutto appropriato o addirittura indispensabile, che considera più coerenti con i suoi valori e il suo progetto di vita. Questo dovere degli esperti resta intatto di fronte a un’emergenza di salute pubblica, ma non assorbe automaticamente il momento della decisione. Una ‘buona’ comunicazione serve semmai a favorire la possibilità per attori e filosofi (e per tutti i cittadini) di partecipare anche in questo caso al dibattito pubblico sapendo di cosa parlano. E sempre con la consapevolezza che le conseguenze di quel che si sceglie di fare o non fare ricadono anche sugli altri.
La democrazia è impegnata, pena la sua riduzione alla formula – a quel punto davvero pericolosa – che assegna a ogni testa uno e un solo voto, a fare ogni sforzo per ridurre quella «fragilità epistemica» che Giovanni Boniolo, in un articolo su «Huffington Post» del 15 dicembre, ha definito come la situazione di «deficit e declino conoscitivo e argomentativo» che espone alcuni cittadini al rischio di diventare vittime di «imbonitori e cialtroni». È per questo che non potrà mai esserci una buona democrazia senza una buona scuola. Non è detto, peraltro, che ci sia sempre questa fragilità alla radice della diversità di opinioni che una democrazia cerca di includere e il fatto che gli esperti possano sentirsi obbligati a mettere in guardia dall’azione di imbonitori e cialtroni non è mai un bel segnale per una società di individui che si riconoscono e si rispettano come liberi ed eguali. Anche perché coloro che vengono etichettati in questo modo, probabilmente, non la prenderanno bene. Che fare, dunque, quando le scelte di pochi rischiano seriamente di danneggiare tutti, secondo il parere della gran parte degli scienziati? Cosa significa, in queste circostanze, continuare a fare una comunicazione che è ‘buona’ perché rispettosa delle premesse e degli obiettivi della democrazia?
Quando si tratta dei doveri di solidarietà dei quali parla l’articolo 2 della Costituzione, il gesto dell’imposizione viene facilmente percepito come una sconfitta: la solidarietà che si riesce a ottenere solo con la forza è una contraddizione in termini per una comunità che dovrebbe dimostrarsi tale nella vita e anche nei sacrifici di tutti i giorni oltre che sul piano dei principi fondamentali. Si spiega così l’insistenza sulla trasformazione della vaccinazione in vera e propria questione morale, in un crescendo di appelli nei quali le parole e i toni usati dalle autorità civili si sono spesso sovrapposti a quelli usati dalle autorità religiose. Il rischio implicito in questa opzione è però ovvio. Essa sposta il confronto dal piano delle norme da approvare e rispettare a quello di una contrapposizione fra cittadini ‘buoni’ e cittadini giudicati ‘male informati’ per evitare di liquidarli in blocco come semplicemente egoisti, incuranti del bene comune di fronte a una crisi di salute pubblica. Vale quanto ho già detto per coloro che vengono accusati di mettere in pericolo i concittadini epistemicamente fragili. È assai difficile che le persone accettino senza reagire di essere considerate ‘cattive’.
La via che si apre è a questo punto stretta, ma obbligata. È sbagliato pensare che le persone debbano essere in ogni modo ‘convinte’, anche perché può diventare più facile cedere alla tentazione dell’uso a fin di bene di tecniche come il framing o il cherry picking. Non è di questo tipo di comunicazione che ha bisogno una democrazia e per rendersene conto basta riflettere per un attimo sulla corsa che si rinnova ogni settimana al dato che, fra quelli proposti dall’Istituto Superiore di Sanità, colora di tinte più fosche il destino dei non vaccinati rispetto a quello dei vaccinati. L’informazione – lo ricordo – deve sempre essere completa, oltre che aggiornata e comprensibile, anche quando ciò potrebbe contribuire a mantenere qualche dubbio e qualche incertezza.
Sarebbe ugualmente sbagliato immaginare che una buona comunicazione diventi superflua nel momento in cui una democrazia sceglie infine di obbligare. Il suo ruolo diventa anzi, se possibile, ancora più importante, proprio perché devono esserci solide ragioni per un passo così forte, che può purtroppo diventare, a un certo punto, inevitabile. Non ci si deve stancare di proporre queste ragioni, anche perché la grande maggioranza dei cittadini italiani ha già dimostrato di apprezzarle. Guadagnandosi così il diritto di sapere sempre tutto, di sapere anche che qualche errore è stato probabilmente commesso e che non tutti i dati corrispondono a ciò che avevamo sperato e che vorremmo.
Covid e successo delle tesi anti-scientifiche
Qual è oggi il ruolo della filosofia della scienza nel più vasto panorama della filosofia contemporanea? Non v’è dubbio che la risposta a una simile domanda sarebbe stata assai più facile qualche decennio orsono rispetto ai nostri giorni. Se infatti i neopositivisti logici avevano idee ben chiare sia per quanto concerne i rapporti tra scienza e filosofia, sia a proposito del compito che la filosofia della scienza (intesa come tipica filosofia di) è chiamata a svolgere nei confronti della filosofia senza ulteriori specificazioni, oggi il declino neopositivista e la parallela affermazione dei vari tipi di epistemologia post-empirista hanno sostanzialmente cambiato le carte in tavola.
Troppo facile prendersela con la comunicazione
Lo spunto di partenza di Vittorio Midoro è certamente interessante sia per il precedente che sinteticamente chiama in causa (il Progetto Geodinamica in risposta ai terremoti degli anni ’80), che per l’esplicita attenzione critica alla percezione sociale della pandemia, che coinvolge ovviamente il ruolo del giornalismo e della comunicazione. È certo, infatti, che un intervento sapientemente educativo avrebbe l’inestimabile vantaggio di allargare la rete sociale di quanti condividono l’idea che il sapere è un vaccino strategico per aumentare l’immunità sociale rispetto alla disinformazione; soprattutto, una cultura e una formazione fondate sui dati assicurano successi nella modificazione delle visioni della salute e della malattia, mettendo in campo giovani che saranno cittadini più competenti anche di fronte alle emergenze.
Quello che manca
Nella gestione dell’attuale pandemia da parte del Governo, mi sembra manchi un elemento fondamentale: un progetto di educazione di massa capace di creare consenso sulla strategia per superare la crisi. Parlo di educazione e non di comunicazione. Infatti, mentre la comunicazione consiste in un flusso unidirezionale di informazione, l’educazione prevede un’interazione tra due entità, l’educatore e l’educando, volta al raggiungimento di un accordo su determinati significati.
Preoccupiamoci per la scuola, ma non dimentichiamoci di pensare l’università
Istruzione superiore ‘s.p.a.’, ovvero l’università-azienda. Secondo l’OCSE, è il modello verso cui oggi tendono gli atenei nei paesi di lingua inglese. Lo spostamento online della didattica, legato alla pandemia COVID-19, rallenterà sicuramente questo processo, ma non lo arresterà.
La direzione di marcia sarà comunque quella di competere a livello globale per offrire formazione avanzata a prezzi di mercato e attrarre il maggior numero possibile di studenti, anche intercettandoli direttamente nei loro paesi tramite sedi decentrate o corsi telematici. Questi gli obiettivi della formula ‘s.p.a’, con cui dovremo confrontarci presto da vicino: sulla scia della Brexit, le università del Regno Unito diventeranno sempre più aggressive nel contesto ormai globale dei servizi per la conoscenza.