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«C’è del metodo in questa follia?». La presidenza Trump e la unitary executive theory

14 Maggio 2025 di Antonio Malaschini Lascia un commento

  1. Il Project 2025 e i suoi obiettivi

Come ricordato in un ‘post’ su Paradoxaforum del 3 aprile (Make America Great Again: non ‘caos’, ma progetto politico), nello scorso mese di marzo l’Institute Montaigne ha pubblicato un articolo di Badouine de Hemptinne che, nell’esaminare i primi atti della nuova presidenza Trump, ricerca in essi non solo un collante politico, ma un filo conduttore che ne consenta una lettura ideologica e giuridica. Secondo l’autore, il giudizio di ‘caotiche’, ‘confuse’ ed ‘umorali’ che viene comunemente data alle iniziative trumpiane poteva forse essere valida per la sua prima presidenza. Un giudizio che non appare pienamente convincente nel secondo mandato, che sembrerebbe invece puntare ad un voluto regime change (secondo alcuni ad un ‘colpo di stato a freddo’) con un attacco ai valori caratterizzanti le democrazie occidentali: la rule of law, il rispetto della persona e della dignità umana, i diritti di libertà, il pluralismo, il libero mercato, l’equilibrio tra i poteri.

Questa ricostruzione ‘razionalizzatrice’, comune ad altri autori, si fonda sull’analisi di un documento, Project 2025, che costituirebbe la base per le iniziative assunte oggi dalla nuova presidenza. Vediamo meglio di cosa si tratta.

Project 2025 è un volume di 887 pagine della Heritage Foundation, un think tank conservatore, pubblicato nell’aprile del 2023 in vista delle elezioni americane dell’anno successivo. Si tratta della nona edizione di una serie, Mandate for leadership, che la Fondazione produce dal 1981 in occasione delle elezioni presidenziali. La Heritage è, come detto, un think tank conservatore fondato nel 1973 e costituisce una delle più influenti associazioni americane di ricerca ed indirizzo politico. Non è una emanazione diretta del trumpismo ma il suo presidente, Kevin Roberts, le attribuisce la missione di ‘istituzionalizzare’ il trumpismo stesso. Ricordiamo peraltro come il vicepresidente J.D. Vance abbia scritto una elogiativa prefazione al libro di Roberts, Dawn’s Early Light: Taking Back Washington to Save America. E che molti degli oltre 350 esperti che hanno collaborato alla redazione del Project sono poi entrati a far parte dell’amministrazione: tra di essi ricordiamo John Ratcliffe, direttore della National Intelligence; Russ Vought, Direttore dell’Office for Management and Budget (OMB); Jon Feere, Capo di Gabinetto dell’Agenzia per l’Immigrazione (ICE); Stephen Miller, consigliere della Casa Bianca. Quanto appena detto per chiarire che, pur avendo Donald Trump negato che il Progetto sia alla base del suo programma, i primi mesi della nuova presidenza hanno già visto l’adozione di molte delle proposte contenute nel Progetto stesso.

Non esamineremo qui a fondo tutti gli aspetti del Project 2025 e, quindi, le iniziative presidenziali che in questi mesi ne sarebbero la realizzazione. Ne indicheremo comunque le più significative, soffermandoci in particolare sulla ‘visione costituzionale’ che emerge dal Progetto, sul ruolo che in esso è riservato alla Presidenza e sui rapporti di quest’ultima con gli altri organi: in primo luogo il Congresso, le Corti, gli Stati. Nella parte finale cercheremo di fare il punto sullo stato di attuazione delle più rilevanti tra le diverse e numerose misure che la presidenza Trump ha adottato nel solco delle indicazioni del Progetto.

Dalla prefazione al Project 2025 del presidente della Heritage Foundation, Kevin Roberts, prendiamo quelli che vengono definiti i «quattro fronti» sui quali la nuova amministrazione dovrebbe impegnarsi: ricollocare la famiglia al centro della vita americana e proteggere i più giovani; smantellare lo stato amministrativo (administrative state) e restituire l’autogoverno al popolo americano; difendere dalle sfide globali la sovranità, i confini e le risorse del paese; garantire i diritti individuali dono di Dio (God-given) a vivere liberamente grazie a quella che la Costituzione definisce «la benedizione della libertà».

Come sopra detto, esamineremo in particolare il secondo degli obiettivi ora indicati: «smantellare lo stato amministrativo e restituire l’autogoverno al popolo americano». Questo impegno è al centro della prima sezione del Mandate for Leadership, con il significativo titolo Prendere in mano le redini del governo.

Dopo aver ricordato l’ammonimento profetico di Abramo Lincoln secondo il quale il più grande pericolo per l’America verrà non dall’esterno ma dal suo interno, si afferma che «compito del nuovo Presidente conservatore sarà quello di limitare, controllare e dirigere l’esecutivo per conto del popolo americano». Nel valutare la credibilità di questo impegno è necessario riferirsi, torneremo su questo tema, all’articolo II della Costituzione che recita: «Del potere esecutivo sarà investito (vested) un Presidente degli Stati Uniti d’America». Per i redattori del Progetto la realizzazione di tale precetto si scontrerebbe però oggi con il fatto che la burocrazia federale, che dovrebbe essere subordinata al Presidente quale detentore ‘unico’ del potere esecutivo, è invece ideologicamente orientata a sovrapporsi ai poteri presidenziali boicottandone la realizzazione. La risposta a questa deriva dovrà pertanto essere la rivendicazione decisa dei poteri del Presidente, espressione unica dell’esecutivo, nel solco di quella che viene  appunto definita dai costituzionalisti americani l’unitary executive theory.

Tralasciamo i giudizi su una burocrazia federale nella quale, nell’opinione degli estensori del documento, le assunzioni vedrebbero oggi privilegiati, in ossequio ad una più volte criticata ideologia woke, soggetti con una «history of drug addiction», «alcoholism», «morbid obesity», «irritable bowel syndrome» o «psychiatric disorder». Veniamo invece all’indicazione dello strumento che potrebbe consentire di realizzare l’obiettivo di una Presidenza forte: «la nuova amministrazione dovrà riempire i suoi ranghi con nomine politiche». Funzionari di nomina politica, responsabili davanti ad un Presidente che li ha nominati e da questo rimovibili ove non rispettino i suoi indirizzi, sono indispensabili per realizzare il programma presidenziale. A sostegno di questo indirizzo vi è un principio già in parte seguito per quanto riguarda i più stretti collaboratori del Presidente, i Secretaries dei vari Dipartimenti, a cominciare dal Segretario di Stato. La loro nomina è certamente sottoposta all’advice and consent del Senato, ma non si è mai ritenuto che ciò comportasse la necessità di un consenso del Senato stesso anche per la rimozione. Si è infatti considerato che, in ogni caso, il Senato sarebbe entrato nel procedimento nel momento in cui avrebbe dovuto esprimere il proprio consent alla nomina del successore del Segretario rimosso. Così è accaduto, ad esempio, nei casi di Henry Kissinger, rimosso da Jimmy Carter; Colin Powell, da George W. Bush; Hillary Clinton, da  Barack Obama; Rex Tillerson da Donald Trump nel suo primo mandato.

  1. La unitary executive theory

Esaminiamo ora le premesse giuridiche del potere presidenziale di nomina e di rimozione, aspetto qualificante come appena detto del programma del Project 2025 e di quello trumpiano. Siamo qui al punto centrale dell’attuale scontro politico-costituzionale negli Stati Uniti: è sostenibile una lettura della Carta che vede nella persona del Presidente il soggetto che da solo incarna il potere esecutivo? Con le conseguenze che ciò comporta non solo nella definizione delle sue attribuzioni, ma anche nel suo rapporto con i soggetti sui quali egli esercita un potere di nomina e, secondo questa scuola, di rimozione.

È quella, come ricordato, che viene definita dagli studiosi americani la unitary executive theory.

Storicamente l’espressione ‘esecutivo unitario’ viene fatta risalire alla contrapposizione nella Convenzione di Filadelfia del 1787 tra coloro che favorivano una presidenza espressa da un unico soggetto e i sostenitori invece di un ‘consiglio esecutivo’. Come è noto si affermò l’opinione di chi, come Madison, propendeva per la soluzione unitaria. La discussione si spostò però subito sui poteri che avrebbe potuto esercitare tale esecutivo unitario, in particolare appunto su quelli di nomina e rimozione.

Non vogliamo in questa sede ripercorrere tutto il dibattito politico e dottrinale sul tema che si sviluppò sino ai primi decenni del ’900, incentrato principalmente sul significato della cosiddetta «vesting clause» di cui al ricordato articolo II, sezione 1, della Costituzione: «Del potere esecutivo sarà investito (vested) un Presidente degli Stati Uniti d’America»; e sulla «take care clause», di cui alla sezione 3 dello stesso articolo, che gli attribuisce il potere di «curare che le leggi siano fedelmente eseguite». Un dibattito, questo, sulla unitarietà dell’esecutivo che aveva tra i suoi punti centrali il riconoscimento o meno in capo al Presidente del potere di nomina e rimozione dei funzionari pubblici.

La prima rilevante occasione per la Corte Suprema di pronunciarsi su questo aspetto fu nel 1926 la sentenza Myers v. United States nella quale, con una interpretazione fortemente «originalista», si affermò il principio di un ampio potere presidenziale su tutti i funzionari dell’esecutivo.

Un momento chiarificatore si ebbe alcuni anni dopo, nel 1935, con l’unanime sentenza della Corte nel caso Humphrey’s Executor v. United States. La Corte annullò in quella occasione la rimozione da parte del Presidente F. D. Roosevelt di uno dei commissari della Federal Trade Commission, William Humphrey. I giudici argomentarono che alcuni dei poteri del Presidente sono a lui direttamente attribuiti dalla Costituzione come, ad esempio, quello di Comandante in Capo delle Forze Armate. Altri invece, specialmente nelle questioni interne, provengono da un’autorità ‘derivata’ dal Congresso, come quando quest’ultimo istituisce agenzie governative attribuendo loro funzioni «quasi-legislative» o «quasi-judicial». Se il ruolo di tali agenzie è quello di implementare le politiche indicate nell’atto istitutivo («statute»), il Congresso può allora proteggerne i membri da una rimozione senza giusta causa da parte del Presidente che, in base alla legge, li aveva nominati. Il potere di rimozione presidenziale sarebbe quindi limitato ai «purely executive officers».

Il dibattito proseguì nel dopoguerra sotto le presidenze Nixon (caso Watergate), Reagan e G. W. Bush e, anche grazie al contributo di associazioni come la Federalist Society e la richiamata Heritage Foundation, si è rinforzata negli anni più recenti la teoria di un esecutivo unitario ‘forte’, senza limiti al potere di rimozione. Il libro di Arthur M. Schlesinger The Imperial Presidency, del 1973 ed aggiornato nel 2004, ben ricostruisce il quadro politico-istituzionale che negli anni ‘70 accompagnò il confronto su questo tema.

Una importante vittoria per i sostenitori dell’unitary executive si è avuta nel 2020 con la sentenza Seila Law v. Consumer Financial Protection Bureau. In quell’occasione la Corte Suprema, con un verdetto 5-4, estese il potere presidenziale di rimozione a tutte le agenzie con un vertice individuale; non riconoscendo però ancora l’applicazione del principio a quelle a guida collegiale.

A sostegno della teoria unitaria è intervenuta lo scorso anno la decisione della Corte nel caso Trump v. United States, che ha riconosciuto a Donald Trump (6-3) l’immunità per gli atti compiuti come Presidente nell’esercizio dei propri poteri. Ai fini del nostro discorso va sottolineato come in tale sentenza si afferma che il ruolo di supervisione amministrativa del Presidente deriva dai suoi «exclusive and preclusive powers». Sono quindi poteri che né il legislativo né il giudiziario possono limitare. La Corte desume poi dalla richiamata clausola costituzionale «curare che le leggi siano fedelmente eseguite» un ampio potere di direzione, comprensivo di quello di rimozione, su coloro che «esercitano potere esecutivo per suo conto (on his behalf)».

Alla luce di questo ultimo indirizzo, la Presidenza ha intensificato le iniziative per vedersi riconosciuto il potere di rimuovere anche singoli membri di agenzie collegiali. Nel marzo 2025 la Corte d’Appello del Circuito del Distretto di Columbia ha deciso per la legittimità della rimozione di componenti del National Labour Relations Board e del Merit System Protection Board, istituiti dal Congresso con leggi federali, ritenendo che alcuni dei poteri da essi esercitati abbiano carattere ‘esecutivo’. Si attende la pronuncia della Corte Suprema: una conferma della decisione costituirebbe un passo deciso verso l’affermazione di un unitary executive ‘forte’, con conseguenze significative nei rapporti tra Presidenza, Congresso e Corti nonché, oggi di estremo rilievo, con la Federal Reserve ed il suo presidente Jerome Powell.

Vanno comunque al momento registrate alcune dichiarazioni che mostrano come si intenda fare di questo confronto un elemento caratterizzante la presidenza: «ai giudici non può essere consentito controllare il legittimo potere dell’esecutivo» (J.D. Vance); «chi salva il Paese, non viola alcuna legge» (Donald Trump).

  1. L’attuazione del Project 2025

Vediamo quindi sia pur brevemente i concreti atti attraverso i quali Trump ha dato seguito al principio di questo ‘forte’ unitary executive, nel senso auspicato dal Project 2025 e confortato, per quanto riguarda i suoi poteri di nomina e rimozione, dalle sentenze sopra richiamate. Non ci siamo soffermati solamente sugli atti che fanno riferimento ai poteri da ultimo indicati: abbiamo valutato anche altre iniziative che sembrano trovare fondamento nella teoria ‘unitaria’, come sostenuta nel Progetto più volte richiamato.

Trump nei quattro anni del suo primo mandato aveva complessivamente adottato 220 ordini esecutivi. Nei soli primi 100 giorni della nuova presidenza gli ordini esecutivi sono stati 143, ai quali si aggiungono altri 781 provvedimenti qualificabili come executive actions: una prova ulteriore di come questa volta fosse già pronta una precisa strategia normativa. Nello stesso periodo di tempo il Congresso ha approvato solo 5 leggi.

Al 6 maggio, grazie al tracking della rivista «The Economist» e di altri siti specializzati, possiamo valutare in circa 50 i provvedimenti più rilevanti ai fini della realizzazione del programma presidenziale. Collochiamo questi all’interno dei «quattro fronti» che come abbiamo sopra visto definiscono il Project 2025. Sia pure con una qualche approssimazione, tra di essi 23 possono essere ricondotti al secondo di tali fronti: smantellare lo stato amministrativo; 16 al terzo, difendere dalle sfide globali la sovranità, i confini e le risorse del paese; 7 al primo fronte, ricollocare la famiglia al centro della vita americana e proteggere i più giovani; due all’ultimo, garantire i diritti individuali. I residui appaiono di meno definibile classificazione all’interno delle proposte del Progetto, come ad esempio la grazia ai rivoltosi del 6 gennaio.

Come si desume da questo sia pur approssimativo esame, l’obiettivo prevalente appare essere quello dello smantellamento delle strutture amministrative. Certamente, sotto un profilo di rilevanza mediatica ed internazionale, sono oggi in primo piano i provvedimenti in campo tariffario assunti dal Presidente Trump, che possono essere ricondotti al terzo fronte: quello cioè che vuole difendere dalle sfide globali la sovranità e le risorse del paese. È un tema sul quale tra breve torneremo.

Vogliamo però prima sottolineare, nel solco del nostro discorso, due aspetti. Innanzitutto che sotto il profilo del numero e del contenuto delle decisioni fino ad oggi assunte il programma delineato nel Project 2025 è sovrapponibile alle iniziative adottate dalla presidenza Trump. In secondo luogo che, in quasi tutti i provvedimenti, si ravvisa un filo che collega la realizzazione del progetto ad un rafforzamento del potere presidenziale, in particolare quello di nomina e di rimozione: un passo deciso verso la realizzazione della unitary executive theory. Ciò comporta, tra l’altro, l’abbandono di quel criterio meritocratico che oggi da più parti viene negativamente considerato e che negli Stati Uniti si è da sempre scontrato, rimanendo spesso soccombente, con quello dello spoil system. Un criterio quello del merito, come ammonisce la nostra Costituzione, che dovrebbe invece restare al centro del rapporto tra politica ed amministrazione.

Tutto ciò detto, sarebbe però miope non tener presenti in questa analisi gli effetti delle iniziative della presidenza Trump in due campi di assoluta rilevanza: la politica estera e quella tariffaria. Due settori nei quali appare indebolito quell’elemento di programmata razionalità che si vorrebbe far scaturire dalle misure invocate dal Project 2025 ed in buona parte avviate.

In entrambi questi campi ci si trova davanti a comportamenti erratici, discontinui ed incoerenti, nei quali appare difficile rinvenire la richiamata razionalità. Non vogliamo qui addentrarci nell’esame puntuale di iniziative che appaiono contraddire quanto finora sostenuto: e cioè che, a differenza del primo mandato, ci troviamo oggi davanti ad un definito programma che attende solo di essere progressivamente realizzato. Dall’Ucraina a Gaza, dall’Iran a Taiwan, dalla Groenlandia a Panama, dalla priorità da dare ai rapporti con storici alleati o invece a quelli con altrettanto storici avversari, sfugge a volte il senso e la direzione di un progetto di politica internazionale e ancor peggio, la credibilità della sua attuazione.

Così come destano sconcerto le oscillanti decisioni in campo tariffario e finanziario, con effetti negativi per la stabilità economica degli Stati Uniti e della loro moneta e ancor più per la perdita di fiducia nella loro politica.

Sembra prevalere qui nell’esercizio del potere, come tante volte nella storia, l’elemento ‘umano’, capace di far fallire i più razionali programmi. È un fenomeno che negli ultimi decenni ha contribuito all’emergere di quella ‘crisi della democrazia’ e della connessa personalizzazione del processo politico, in un quadro di rumoroso qualunquismo, su cui la pubblicistica non solo occidentale si è misurata.

Ma le più recenti decisioni di Trump, che appaiono in questi ultimi giorni improntate specialmente in materia tariffaria ad una maggiore accettazione della realtà, ripropongono su questo tema le proposte avanzate nella quarta sezione del Project 2025 da Peter Navarro, oggi Consigliere del Presidente per il Commercio. Una prova ulteriore dell’influenza di un documento che contribuisce a ricondurre ad uno schema certamente combattivo ma più razionale le erratiche decisioni della presidenza.

  1. Le reazioni del sistema costituzionale

Ma come sta reagendo il sistema costituzionale americano ad un progetto politico sostanzialmente accentratore ed alla sua erratica implementazione?

Ricordiamo in premessa che il partito repubblicano detiene oggi al Congresso la maggioranza: al Senato vi sono 51 repubblicani, 48 democratici ed un indipendente che vota normalmente con i democratici; alla Camera dei Rappresentanti 220 repubblicani, 213 democratici e 2 seggi vacanti. Le elezioni di midterm, che potrebbero mutare tali rapporti, si terranno nel novembre del 2026. Alla Corte Suprema vi è invece una maggioranza di 6 a 3 a favore dei giudici di orientamento conservatore.

In relazione ai provvedimenti esecutivi che abbiamo sopra indicato, alla data del 6 maggio ne risultano temporaneamente bloccati in sede giudiziaria 22; 18 sono stati invece, sempre temporaneamente, consentiti. In un caso, quello sui licenziamenti agevolati, si è avuta una definitiva decisione di legittimità. Il sistema dei checks and balances sembra quindi stia al momento funzionando. Resta naturalmente la questione delle posizioni che assumerà poi nei singoli casi la Corte Suprema.

Un decisivo terreno di valutazione per il programma di governo è costituito dai mercati: dando all’indice Standard&Poor 500 il valore di 100 nel giorno delle elezioni dello scorso novembre, alla data del 5 maggio esso è sceso a 93,500. È un check che, sia pure in un quadro di continue ed anche recenti significative oscillazioni, va tenuto presente. Così come va ricordato l’attuale critico andamento del dollaro e il crescente costo del debito americano.

Vi sono poi diversi Stati che hanno fatto ricorso contro le iniziative presidenziali: ricordiamo ad esempio la California, prima fra tanti, in relazione all’uso dell’Emergency Economic Powers Act per imporre dazi alla Cina scavalcando il Congresso, provocando in tal modo danni indiretti alle imprese californiane.  Così come otto Stati hanno impugnato la cancellazione di 250 milioni di dollari di contributi per l’istruzione; e ventitré Stati la soppressione di somme legate all’epidemia da Covid.

Numerosi sono i ricorsi presentati da enti ed associazioni, come quelli dell’American Civil Liberties Union sulle politiche anti-immigratorie; o dell’Università di Harvard sul taglio ai contributi federali.

Tutto ciò non potrà non avere conseguenze all’interno dello stesso partito repubblicano, al momento schierato a sostegno del Presidente, e tra coloro che hanno sostenuto finanziariamente e politicamente Trump. Secondo de Hemptinne, che abbiamo citato all’inizio del lavoro, sarebbero riconoscibili due filoni nel movimento trumpiano che si confrontano nell’attuazione del più volte richiamato Project 2025: da una parte quello degli intellettuali post liberali come J.D.Vance e Marco Rubio; dall’altra i tecno-capitalisti libertari come Elon Musk, Peter Thiele, Marc Andreessen, Eric Schmidt ed altri. Più, aggiungiamo noi, la storica base conservatrice di stampo reaganiano, ancora influente in campo economico, finanziario e mediatico e, naturalmente, il nucleo populista del MAGA, con le sue venature religiose, espresso da Steve Bannon ed altri. Al momento questa unità intorno al presidente, forte nel momento elettorale e nei primi mesi della presidenza, sembra mostrare linee di frattura, come evidenziano la ricordata contrarietà del settore finanziario ed industriale alle politiche tariffarie e il preannunciato disimpegno di Elon Musk da posizioni di governo. E come dimostrano le critiche anche interne alle scelte di Trump per gli incarichi politico-istituzionali che, più che la competenza, sembrano valorizzare la vicinanza e la fedeltà con risultati a volte decisamente imbarazzanti.

Se questa difficile unità interna si spaccasse, si potrebbe forse avere una diversa dislocazione del potere nel governo del paese, con un affievolirsi dei presupposti dell’unitary executive theory ed un rafforzamento delle più tradizionali dinamiche interne al sistema. Con conseguenze nei rapporti con gli organi costituzionali e con le altre istituzioni, a cominciare dalle agenzie regolatorie. Un raffreddamento dei poteri della presidenza i cui effetti si potrebbero poi estendere alla società civile, alle università, agli organi della comunicazione e, naturalmente, ai rapporti internazionali. E che costringerebbe forse anche quegli ormai fondamentali players economici, finanziari, sociali e politici che sono le grandi società tecnologiche, le Big Tech, a rivedere i propri piani di ingegneria costituzionale.

Un ruolo decisivo in questo processo sarà assunto dalla Corte Suprema e dal suo presidente John Roberts. È pur vero che, come ricordato, vi è oggi alla Corte una maggioranza di giudici conservatori (6 a 3), e che Roberts è stato relatore nella richiamata sentenza Trump v. United States che ha rafforzato la teoria dell’unitary executive. Ma alcune recenti decisioni della Corte sono andate in senso contrario alle iniziative dell’esecutivo, come ad esempio quella (7 a 2) che ha al momento bloccato la deportazione di alcuni detenuti in base all’Alien Enemies Act. E la storia costituzionale americana ci ricorda che la Corte Suprema, con John Marshall, affermò la propria centralità nel 1803 nella sentenza Marbury v. Madison, in uno scontro duro ma risolto con grande equilibrio con una presidenza ‘forte’. Molti si aspettano che Roberts, un conservatore tradizionalista, sappia ispirarsi a quel precedente: confortato peraltro dalla decisione presa all’unanimità dalla Corte lo scorso anno nel caso NRA v. Vullo, che limita il potere governativo di intervento su soggetti privati per far sopprimere opinioni che il governo non condivide.

Alla soluzione opposta, al deteriorarsi cioè dei rapporti tra i poteri costituzionali a cominciare da quello giudiziario dovuta alla crescente difficoltà di realizzare il programma presidenziale, e ad un conseguente inasprirsi delle tensioni interne ed internazionali, non vogliamo, con voluta speranza, dare per oggi credito.

Slogan "Make America Great Again"

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