Ormai la scuola è ripresa da una settimana. Tanti colleghi dirigenti scolastici sono veramente schiacciati dal cumulo di responsabilità, dalle attese delle famiglie e degli insegnanti, che sovente non si rendono conto dell’immane sforzo di organizzazione e – ancor più importante – di immaginazione che è stato messo in campo da noi e dalla maggior parte dei colleghi in tutta Italia.
Alcuni hanno persino dovuto decidere di non riprendere le attività in presenza della propria scuola, dopo settimane di solitudine non certo mitigata dai continui monitoraggi a cui siamo stati sottoposti dalle diverse istituzioni, che dovrebbero esserci alleate oltre che per alcuni aspetti sovraordinate.
Scriviamo e ribadiamo per alcuni aspetti sovraordinate perché occorre ricordare, anche in questa sede, come l’autonomia scolastica sia ormai un dato acquisito da noi dirigenti scolastici, mentre viene solo gradualmente interiorizzata da docenti e famiglie. Questo avviene in particolare per via della solitudine cui l’autonomia condanna molti tra noi, mentre qualunque istituzione si sente in diritto di darci illegittimamente disposizioni cui purtroppo alcuni colleghi danno seguito pur senza averne l’obbligo.
Se dovessimo costruire un lessico della scuola che riparte dal punto di vista dei dirigenti scolastici (un esercizio che in effetti potrebbe essere stimolante per la nostra mai sopita creatività linguistica) probabilmente la prima parola fondamentale e necessaria da declinare ed analizzare sarebbe positività. La positività che oggi tanto ci fa paura è quella sierologica, noi invece ci ostiniamo a pensare alla positività assoluta e volenterosa, la positività che supera persino l’ottimismo della volontà, quella positività di chi non si sfianca dinanzi alle avversità.
Queste avversità hanno talvolta alla base incomprensioni preconcette dei collegi docenti troppo colmi di non detti, risalenti magari ad anni addietro se non addirittura decenni, che rispecchiano la complessità dei rapporti umani non sempre fluidi tra insegnanti, che tendono, anche se non sempre, all’autoreferenzialità, accompagnata da sfumature di sfiducia, delusione e stanchezza che la pandemia, con la sua didattica a distanza, ha solo accentuato. Accanto a questi esempi, abbiamo visto svolgersi anche esperienze positive di gruppi di insegnanti che hanno saputo reagire all’emergenza, fare squadra e scommettere se stessi nell’esperienza della didattica a distanza con ottimi risultati.
Per questo l’altra parola fondamentale di un possibile lessico dei dirigenti scolastici senza paura è Comunità educativa (non educante). Educativa perché questo aggettivo rende meglio di qualunque participio la coessenzialità pretemporale dei due lemmi per la descrizione della scuola, che senza di ciascuno di questi due non sarebbe scuola (uno tra noi due è filosofo di formazione ci si perdonerà questa divagazione non peregrina).
Alcune scuole si sono sfaldate nei conflitti interni, altre con fatica hanno saputo fare gruppo e reagire insieme; ad esempio, noi due abbiamo appena costituito una rete di scopo per l’insegnamento dell’italiano ai minori stranieri non accompagnati, insieme a una terza scuola di Roma. Vedremo se riusciremo a vincere un bando che scade tra pochi giorni.
Lo facciamo perché crediamo fermamente nella necessaria anteriorità dell’ottimismo, nella necessità di vincere l’isolamento che uccide dentro molti nostri colleghi, bruciandone l’entusiasmo e trasformandoli in burocrati, spegnendo la luce che ardeva nei loro occhi appena vinto il concorso da dirigente scolastico, che sia stato un anno o venti anni fa poco importa.
Fare comunità è svolgere pratiche comunitarie per vincere la tentazione di cedere alla violenza degli uffici, traduzione letterale della burocrazia, termine che chiunque non abbia tempo di leggere i saggi di Max Weber può ritenere come sintesi essenziale di un pensiero fecondo sulle dinamiche del potere pubblico (ma anche privato), una finta neutralità che è anche sterilità e male da evitare.
Come abbiamo potuto sperimentare entrambi nella nostra personale esperienza a scuola, quando la comunità riesce a stringersi verso un unico obiettivo, tutto si affronta meglio: alcune volte basta semplicemente la comprensione, la non opposizione per principio a rendere più facili i processi organizzativi in momenti di particolare difficoltà come quello che stiamo attraversando.
Questa situazione non è troppo diversa tra grandi città come Roma, dove le scuole si sentono una goccia insignificante in un oceano di poteri, e i piccoli paesi dove la scuola gode del dovuto prestigio sociale ma si rischia l’ingerenza politica locale. In entrambi i contesti si può toccare con mano la rottura dell’alleanza educativa a fondamento della comunità scolastica, che può manifestarsi nelle martellanti richieste dei genitori con le loro chat invasive, fino al parossismo o i consigli di classe o d’istituto trasformati in arene di varie rivendicazioni. Ricostruire e ritessere i rapporti tra scuola e famiglie dopo questa rottura e le conflittualità che si è portata dietro è oggi più necessario che mai.
Cosa è cambiato dopo la sospensione della didattica in presenza? In altre scuole già in crisi la conflittualità è esplosa. Più in generale, le criticità emerse in questi mesi sono risalenti a tanti anni fa, come ad esempio la problematica mai risolta delle classi sovraffollate.
Quello che ci colpisce è vedere dedicate a tali temi caldi per noi da decenni un’attenzione mediatica che, purtroppo, troppo spesso è rimasta bassa speculazione giornalistica o politica, senza una vera volontà di risolvere di cooperare tra istituzioni, ma solo scaricando responsabilità di eventuali inadempienze.
Cosa invece c’è di buono? Che il dibattito pubblico sulla scuola sia ripartito, con una velocità, un’intensità e una partecipazione che non si erano mai viste a nostra memoria prima. Probabilmente, mai nella storia repubblicana si è tanto parlato di vita scolastica e di pratiche di scuola, il pilastro fondamentale dello stato sociale, almeno a nostro parere.
Il discorso pubblico si sposta velocemente come la fama virgiliana, e anche in questo si attua una delle tante declinazioni della teoria sociologica detta Acceleration theory di Hartmut Rosa, che ci sembra possa essere applicata anche in questo contesto. Ma su questo, magari, ritorneremo in futuro, se il nostro lessico dialogico avrà una continuazione.
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