Semplificando molto, si può affermare che per uno o due secoli il livello generale dei prezzi era stato considerato/percepito come costante nel tempo. Certamente si erano verificati importanti salti di livello in corrispondenza di fiammate inflazionistiche, ma queste ultime duravano alcuni anni di redistribuzione violenta dei redditi e della ricchezza poi, cambiata la moneta e/o il suo ancoraggio all’oro o all’argento, si iniziava un nuovo lungo periodo di stabilità. Tant’è che per un periodo molto lungo il “prezzo normale del tempo”, ovvero il tasso di interesse normale che remunera la posposizione del consumo, era stato considerato aggirarsi in prossimità del 5 per cento, senza risentire delle fiammate inflazionistiche. Tutto ciò approssimava in modo molto rozzo la percezione del livello dei prezzi e del tasso di interesse nominale, quando il finanziamento della guerra del Vietnam mise in difficoltà il dollaro, che dovette abbandonare il suo ancoraggio all’oro (1971), disancorando dal medesimo anche le altre monete che al dollaro si erano legate con gli accordi di Bretton Woods.
L’anno successivo i prezzi in dollari dei beni agricoli esplosero e l’anno dopo ancora, complice la guerra del Kippur, anche quelli del petrolio si moltiplicarono per quattro o cinque. Questa sequenza di shock provocò il diffondersi di tassi di inflazione via via crescenti nei paesi importatori di materie prime, e tassi di crescita via via decrescenti (stagflazione). Gli economisti abituati, come il sottoscritto, a ragionare con schemi macroeconomici keynesiani interpretavano il rallentamento della crescita come conseguenza della caduta della domanda aggregata in termini reali per l’effetto dell’aumento dei prezzi. Il suggerimento che si traeva era di sostenere la domanda con la politica di bilancio pubblico e non ci si opponeva alla indicizzazione dei salari alla dinamica dei prezzi. Tranne che in Germania, la politica monetaria non assunse atteggiamenti significativamente restrittivi, anzi si atteneva alle esigenze di finanziamento dei disavanzi pubblici, e l’inflazione continuò a salire, accelerando ulteriormente alla fine del decennio dopo lo shock petrolifero conseguente alla rivoluzione in Iran, fino a diventare un fenomeno nuovo da considerare non più come una fiammata, ma incorporato nei diversi sistemi economici, sia pure in misura diversa.
Nel frattempo, altri economisti, prestando molta attenzione proprio al fatto che l’inflazione stava diventando un fenomeno sempre più endogeno al sistema, posero l’accento sul ruolo giocato dalle aspettative di inflazione nel generare endogenamente inflazione. Alcuni si fermarono alla considerazione di aspettative che si formano in modo inerziale, ovvero che i prezzi e i salari futuri siano fissati sulla base dell’inflazione osservata nel recente passato. Altri cominciarono a riflettere sulla non efficienza/razionalità da parte degli operatori economici di formarsi aspettative solamente guardando al passato; più razionale è considerare l’atteggiamento che le politiche di bilancio e le politiche monetarie assumeranno nel futuro nei confronti dell’inflazione. Questi atteggiamenti dipendono dalla natura politica dei governi e dai legami politico-istituzionali tra governi e Banche Centrali. Legami che negli anni Settanta erano di sudditanza delle autorità monetarie nei confronti dei governi, in un contesto in cui le monete avevano perso, direttamente o indirettamente, l’àncora all’oro.
La teoria della politica monetaria si concentrò quindi sulla necessità che la nuova àncora diventasse l’indipendenza della Banca Centrale alla quale il governo consegna un obiettivo di lungo periodo dell’inflazione che deve essere perseguito indipendentemente dall’atteggiamento che il governo, temporaneamente in carica, intende assumere nei confronti dell’economia reale. Ovviamente, la Banca Centrale con il suo operare col tempo deve rendere credibile per gli attori dell’economia di essere in grado di procedere con indipendenza. Quindi, indipendenza e credibilità delle Banche Centrali in tal modo si sostituiscono all’oro nel garantire il valore della moneta diventata totalmente fiduciaria.
È questa teoria che ha ispirato le Banche Centrali dagli inizi degli anni Ottanta. Sono seguiti dai tre ai quattro decenni di disinflazione, con episodi di deflazione vera e propria. Anche la deflazione era una distorsione che doveva essere corretta e gli strumenti furono (i) tassi di interesse nominali via via più bassi fino a diventare, in alcuni casi, negativi in termini nominali e (ii) espansione della quantità di moneta a disposizione del sistema economico, effettuata attraverso l’acquisto di titoli del debito pubblico sul mercato secondario (Quantitative Easing). Non sono mancati i timori che l’entità dell’espansione della moneta fosse eccessiva e che si sarebbe rischiato il ritorno a tassi di inflazione elevati. In realtà, un effetto sui prezzi c’è stato e prolungato, ma non sui prezzi di beni e servizi, bensì sui prezzi delle attività finanziarie con effetti redistributivi dei redditi e della ricchezza non trascurabili.
È a questo punto che intervengono in sequenza due fenomeni imprevedibili, non riconducibili direttamente all’economia: due guerre, una metaforica alla pandemia e una effettiva conseguente all’invasione russa dell’Ucraina. Le politiche economiche hanno giustamente reagito in modo aggressivo e convergente alla prima: forte espansione dei disavanzi pubblici sostenuti dagli acquisti di titoli pubblici sui mercati obbligazionari da parte delle autorità monetarie. Lo sconvolgimento dell’intera economia mondiale dovuto ai lockdown determinò situazioni di scarsità di beni e servizi intermedi e quando, con l’uscita dalle restrizioni della pandemia la domanda aggregata reagì più che positivamente, si posero le premesse per la ripresa dell’inflazione, fenomeno sperimentato quasi sempre in concomitanza con la fine delle guerre effettive.
Mentre l’inflazione stava davvero ritornando, la seconda guerra, quella effettiva, impresse all’inflazione una ulteriore accelerazione. Questa volta l’operare di politica monetaria e di bilancio non è pienamente convergente. Da un lato, la politica di bilancio è mirata a contenere l’inflazione compensando la perdita di potere d’acquisto delle fasce più disagiate della popolazione, riducendo così la domanda di indicizzazione dei salari e quindi favorendo il contenimento della potenziale spirale prezzi-salari-prezzi, ma nello stesso tempo sostiene la domanda aggregata che costituisce comunque un fattore di alimentazione endogena dell’inflazione.
Dall’altro lato, l’obiettivo delle politiche monetarie è di evitare che l’andamento attuale dell’inflazione si trasformi in aspettative di inflazione futura altrettanto elevata; esso può solo essere perseguito (i) riducendo la liquidità in circolazione attraverso l’aumento dei tassi di interesse nominali, (ii) azzerando gli acquisti di titoli pubblici già in circolazione e quindi ostacolando il finanziamento dei disavanzi che le politiche di bilancio creano, (iii) non rinnovando i titoli pubblici in portafoglio quando giungono a scadenza e quindi riducendo la quantità di moneta in circolazione (Quantitative Tightening). Con ciò le autorità monetarie sono palesemente consapevoli di indurre spinte recessive nei sistemi economici, lasciando alle autorità fiscali di sostenere la domanda in modo non conflittuale con l’obiettivo da loro perseguito di controllo delle aspettative di inflazione. Per essere convincenti circa la credibilità della loro azione di controllo dell’inflazione in modo indipendente dagli obiettivi dei governi stanno prendendo impegni sui loro comportamenti futuri: “gli aumenti dei tassi di interesse proseguiranno nei prossimi mesi anche se osserveremo qualche rallentamento dell’inflazione, nella consapevolezza che dovremo affrontare il costo di una morbida recessione”.
Detto ciò, il sistema economico, abituato da anni a tassi di interesse nominale quasi nulli e negativi in termini reali, reagisce deprecando le mosse delle Banche Centrali, mentre la discussione è aperta tra gli economisti se la loro comunicazione sia efficace nel tenere sotto controllo le aspettative di inflazione.
Ma quanto è davvero restrittivo lo stato attuale delle politiche monetarie? In ultima istanza, il grado di restrittività della politica monetaria è dato dall’entità del tasso di interesse reale, ovvero, del tasso di interesse nominale meno il tasso di inflazione atteso. Prendiamo il caso europeo in cui il tasso nominale di rifinanziamento da parte della Bce è attualmente il 2,5% e il tasso di inflazione corrente è circa il 10%, se un attore economico si aspetta che l’inflazione da qui al prossimo anno sia quella attuale il tasso di interesse reale è -7,5%. Difficilmente limiterà il suo indebitamento per finanziare le proprie decisioni di spesa, poiché quanto tra un anno dovrà restituire avrà un valore reale del 7,5% minore di quanto ha preso a prestito. Supponiamo, invece, che lo stesso operatore dia fiducia agli annunci della Bce e ritenga che essa sia in grado di ridurre tra un anno l’inflazione al 2%, in tal caso il tasso di interesse reale che entrerà nella sua decisione di indebitarsi o meno sarà dello 0,5%.
Naturalmente, si tratta di due casi astratti ed estremi, la realtà è molto più complessa; servono a comprendere che il grado di restrizione monetaria attuale non è elevato e che il dilemma delle autorità monetarie è se effettivamente intensificarlo, come più sopra indicato, per evitare interventi più pesanti magari fra due anni, oppure cedere alle proteste che sempre si sollevano dal sistema economico di fronte a restrizioni monetarie, cui in questo caso si aggiungono quelle dei governi più preoccupati che i cicli dell’economia coincidano in modo virtuoso con i cicli elettorali (elezioni Usa e Ue, nel 2024).
Non credo che le autorità monetarie vorranno mettere a repentaglio la indipendenza e credibilità acquisite nel corso di questi anni e non credo neppure che il rallentamento dell’attività economica sarà drammatico: gli strumenti di controllo delle grandezze monetarie sono ora decisamente più numerosi di quelli degli anni Settanta.
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