Anche l’europeismo, il pensiero unico, la globalizzazione hanno i loro Mario Appelius, il giornalista del regime per il quale «Mussolini aveva sempre ragione» – per citare la frase, forse ironica, di Leo Longanesi. Uno di questi ha scritto recentemente: «L’Unione europea è il più grande spazio di diritti di democrazia, di non discriminazione di genere, di razza, di religione mai esistito al mondo». Si potrebbe aggiungere: con l’eccezione dei ghetti urbani islamici in cui ‘discriminazioni di genere di razza e di religione’ continuano a registrarsi e a estendersi – giacché gli stati nazionali – e non parliamo dell’inesistente stato europeo, auspicato da Mario Draghi in una serie di interventi retorici, ai quali ha risposto con implacabile realismo Giovanni Orsina – sono da tempo incapaci di assicurare quell’ordine civile che secondo l’immortale Thomas Hobbes era alle origini del contratto sociale.
I cantori dell’esistente non si stancano di intonare i ritornelli che «gli stati sovranisti hanno assoluto bisogno di manodopera non soltanto stagionale» e che il controllo dei flussi sembra inadeguato «a soddisfare le richieste dei datori di lavoro e le domande dei potenziali lavoratori». In realtà, le cose sono un po’ più complicate come non si stanca di ripetere, e di spiegare, Luca Ricolfi, a mio avviso, al di là dei settori accademici, il più lucido scienziato politico che abbiamo in Italia. I cosiddetti ‘sovranisti’ fanno parte di un’area culturale di destra che non è la mia e fanno leggi che a un liberale come lo scrivente, sembrano spesso dettate da un’ideologia conservatrice: commettono, per questo, ‘un peccato contro lo Spirito’? per dirla col vecchio Croce.
Bloccare la libera circolazione di merci, capitali, servizi e persone, tornando alle frontiere delle patrie: che assurdità per i chierici universalisti! Sennonché, si trova qui il momento ‘totalitario’ che accomuna sovranisti e antisovranisti: la realtà è bianca o nera, il mercato se non è completo non esiste, le nazioni sono un residuo del passato, di cui disfarsi al più presto, non il vertice di ogni valore politico (come pretende ad es. Yoram Hazony). Chi si riconosce nella filosofia dei David Hume, dei Raymond Aron, degli Isaiah Berlin non può certo accettare questa logica manichea.
Nel bel libro di Dino Messina, La storia cancellata degli italiani (Ed. Solferino, Milano 2022), Piero Fassino, intervistato dall’autore, afferma: «Una cosa è giusta in sé a prescindere da chi la dice. È questo uno dei basilari principi di laicità cui mi attengo. Mio padre Eugenio, che è stato comandante partigiano in Piemonte e che ci ha lasciati troppo presto, ha fatto in tempo a trasmettermi una regola: guarda, mi diceva, che anche nell’uomo più distante da te c’è un pezzo di verità». È mai possibile che nelle battaglie sovraniste non ci sia neppure un ‘pezzetto’ di verità? Le denunce di Mario Giordano in Fuori dal coro (mercoledì sera su Rete 4) sono tutte fake news? Ai disagi sociali (violenze, furti, insicurezza delle vie cittadine) che vengono portati a conoscenza dell’opinione pubblica, gli antisovranisti hanno proposto soluzioni ragionevoli, evitando risposte evasive del tipo: i problemi sono troppo complessi e non si possono liquidare con la bacchetta magica dei nazionalsovranisti?
In realtà, dagli esponenti di una certa sinistra – un tempo ferocemente antiamericana ora al servizio dell’ Inquisizione occidentalista – vengono solo secchiate di retorica, sicché i conduttori dei talk show di Mediaset (subdolamente) li invitano volentieri in tv sapendo bene che più espongono le loro idee, più aumentano i consensi per la destra. Un noto ‘terrorista del concetto’, in una trasmissione di Nicola Porro, a commento di un reportage sul caso Monfalcone, dove l’alto numero di lavoratori della Finsider di religione islamica, ha in sostanza dato origine non a una convivenza delle culture – e tanto meno a un’integrazione nel «più grande spazio di diritti di democrazia, di non discriminazione di genere, di razza, di religione mai esistito al mono» – ma a due comunità ostili, ha fatto rilevare che, in fondo, assistiamo allo stesso fenomeno dell’emigrazione meridionale a Torino al tempo del miracolo economico.
C’è da rimanere sbalorditi e da ripensare al verso lucreziano «tantum potuit religio suadere malorum!» (dove la religio è anche quella laica e secolarizzata delle ideologie dell’Ottocento del Novecento, come il Medio Evo ‘dure a morire’) . Ci si vergogna quasi a far rilevare un’ovvietà e cioè che i meridionali non provenivano da un’altra cultura, non parlavano un’altra lingua (anche se, sovente semianalfabeti, il loro italiano era pieno di errori di grammatica), non praticavano un’altra religione, non volevano imporre il culto della Madonna Nera di Canneto, il tarantismo o il delitto d’onore a tutti ma solo trovare nell’assai poco cordiale Italia settentrionale un tetto, un lavoro, un posticino al sole. Forse relegavano in casa le loro mogli – ne era tanto sicuro l’invitato di Porro – ma, almeno a Genova, lo scrivente, che viene dal centro-sud, non se n’è mai accorto e, anzi, spesso ha sperimentato, specie nella piccola borghesia, il contrario: ovvero che ‘l’aria del continente rende liberi’ e che le ragazze appena sbarcate dal Sud erano assai più ’aperte’ e disinvolte delle loro coetanee insubriche.
Il fatto è che lo ‘stato nazionale’ – il fantasma che per gli antisovranisti ancora si aggira per l’Europa e che, per loro, sarebbe meglio esorcizzare al più presto – ha assicurato istituzioni comuni: scuole, questure, prefetture, tribunali, caserme, uffici pubblici, in cui si parla la stessa lingua e la provenienza geografica dei cognomi non significa nulla nel far valere i diritti di cittadinanza. Per un povero immigrato dal Sud, gli inizi potevano essere duri, anzi talora erano durissimi, – senza scomodare Il Ponte sulla Ghisolfa di Giovanni Testori, da cui Luchino Visconti trasse uno dei suoi capolavori, Rocco e i suoi fratelli – ma era oggettivamente (anche se non soggettivamente) ‘a casa sua’ e non chiedeva di meglio che di essere trattato come gli altri inquilini.
Gli immigrati islamici di seconda generazione, non a caso, sono quelli più tentati dal fondamentalismo e dal richiamo belligeno alle radici. Al contrario, i meridionali di seconda generazione a Torino, a Milano, a Genova non parlano neppure più il dialetto dei genitori e spesso non lo intendono nemmeno: si sentono torinesi, milanesi, genovesi e non di rado ignorano i paesi di provenienza delle loro famiglie e, se li hanno visitati, è per andare a trovare uno stretto congiunto ‘rimasto al paese’. Manicheismo concettuale e false analogie sono il pane quotidiano degli antisovranisti e dei loro avversari, sarebbe auspicabile prenderne coscienza ma, al riguardo, almeno per il futuro immediato, sono pessimista.
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