Durante le settimane di lockdown e di limitazioni delle libertà personali non pochi – anche qualche nome illustre della filosofia contemporanea – hanno agitato lo spettro del totalitarismo. Con tutto il rispetto per le opinioni altrui, è davvero difficile sostenere tale tesi: non siamo finiti in un esperimento concentrazionario.
Alcune libertà non ci sono state tolte per instaurare un regime, ma per tutelare la salute pubblica, e il temporaneo lockdown cui siamo sottoposti è un provvedimento necessario, nel breve termine, per allentare la pressione sul sistema sanitario e riorganizzare la società in vista della convivenza col virus. La questione cui prestare attenzione dovrebbe essere un’altra, ed è di particolare urgenza in vista della graduale ripartenza che ci aspetta.
Ciò cui abbiamo assistito nei mesi scorsi, infatti, ha evidenziato che, qualora ci fosse realmente un piano per tramutare la nostra democrazia in un qualche regime autoritario, molto probabilmente il nostro Paese avrebbe da opporre anticorpi sociali, culturali e forse anche istituzionali piuttosto deboli. Naturalmente, quanto appena affermato è anche una provocazione, la quale può nondimeno aiutarci a scorgere un pericolo reale anche se non immediato.
Abbiamo visto, infatti, il video dei vigili urbani che a Sassari prendevano a schiaffi un signore per una questione di autocertificazioni e spazzatura, la vergognosa scena di un elicottero della guardia di finanza inseguire in diretta nazionale un passeggiatore solitario in spiaggia come fosse un narcotrafficante, i droni pattugliare dall’alto i parchi, i sindaci in diretta Facebook a caccia dei trasgressori e presidenti di Regione minacciare l’uso del lanciafiamme, la polizia multare per centinaia di euro chi era andato nel proprio orto a raccogliere degli asparagi.
Questo ed altro abbiamo visto. Certo, è ovvio, in ogni categoria, e dunque anche in quella dei sorveglianti e dei governanti, esistono i tangheri, gli ottusi e i sadici. Ciò su cui fissare lo sguardo, però, sono le reazioni dei cittadini.
Bastava fare un giro sui social, una chiacchierata coi vicini, una telefonata coi conoscenti, per leggere o ascoltare frasi come «gli agenti hanno esagerato, ma quelli non potevano uscire di meno?», «Sì, l’elicottero che segue il fuggitivo in diretta TV non è bello, ma che ci faceva in spiaggia? E noi che stiamo a casa?», e così via.
Insomma: nella coscienza dei più, i segmenti di irrazionale violenza dell’autorità, trovavano puntualmente una preoccupante permeabilità, una scrollata di spalle giustificativa, e poi una sostanziale continuità nei ‘due minuti di odio’ dedicati sui social alla foto del runner, al video del tizio seduto sulla panchina, all’assembramento creatosi fuori dal fruttivendolo, al prete che ha osato servirsi di un chierichetto in più dello stretto necessario, con la conseguente rabbiosa supplica a sindaci ed autorità: «Altre restrizioni!», «Noi siamo in casa e questo esce? Sia punito!».
Insomma, buona parte del paese è stata nel panico e con la bava alla bocca. Anche l’ipotesi di un’app apposita per controllare gli spostamenti delle persone sul territorio – dispositivo cui chi scrive, a certe condizioni, è pure favorevole – salvo pochi casi, non incontra praticamente alcuna resistenza, e neppure domande, perplessità, scontento, o rassegnazione: milioni di persone sono pronte a offrire domattina il proprio smartphone alla Patria, col sorriso stampato in faccia e l’animo lieto, senza chiedersi che tipo di limite si stia superando.
Tutto ciò fa venire alla mente Bernanos, che in una conferenza tenuta nel ’46, dal titolo Lo spirito europeo e il mondo delle macchine, affermava (o profetizzava?): «l’umanità ha paura di se stessa […] Sta sacrificando la sua libertà alla paura che ha di sé medesima». Chiariamoci: è ovvio che ora servano regole straordinarie per provare a salvarci dal virus, ma è altrettanto fondamentale chiederci anche cosa per noi sia lecito sacrificare per tutelare la vita fisica. Se la risposta dei più è: «qualsiasi cosa» – e pare sia proprio questa – allora ci sono le avvisaglie di una pericolosa regressione culturale.
Dobbiamo chiedercelo, perché Bernanos aveva visto giusto: quando la paura supera una certa soglia, spinge inesorabilmente gli uomini a consegnarsi mani e piedi a qualsiasi cosa prometta sicurezza – gli scienziati, i politici, le app – e per disinnescare il pericolo potenziale dell’altro, costruisce il fitto reticolo di indifferenza reciproca che costituisce l’apparato cardiocircolatorio di ogni regime illiberale.
Dobbiamo chiedercelo, poiché solo gli utili idioti credono che sicuramente «andrà tutto bene», magari perché confondono il ‘barbaro’ col ‘selvaggio’, e ritengono che una società così tecnicamente avanzata come la nostra sia al riparo dalla barbarie: nient’affatto. Per creare gli anticorpi adatti a evitare un dramma più grande del virus, allora, dobbiamo forse mettere in discussione una verità data per scontata da tutti o quasi, ma che scontata non è, e cioè che la salvezza della vita fisica è il valore supremo.
Elevare la salute del corpo ad assoluto («la salute prima di tutto!», così esclamano politici, giornalisti e cittadini) è un errore madornale del quale forse non ci siamo resi ancora bene conto: segnalarlo non significa essere ‘spiritualisti’ – al contrario – significa voler dire «sì alla vita», ma a tutta la vita, non solo a quella osservabile al microscopio.
Sì, perché se la vita fisica è ‘tutto’, allora per la folla assetata di vendetta, nessuna punizione sarà mai abbastanza severa per i trasgressori e nessun abuso di potere sarà mai troppo grave: di fronte a quel ‘tutto’, ogni precauzione sarà sempre finita, le mascherine non basteranno mai, le sanificazioni saranno sempre imperfette, qualsiasi bisogno o desiderio potrà sembrare ‘non strettamente essenziale’, e pur di non essere esposti al pericolo, potremo arrivare a domandare di essere rinchiusi in un grande carcere di massima sicurezza anti-covid19, dove ameremo le nostre sbarre perché ci fanno restare vivi. Si sta esagerando? Possibile, ma le iperboli aiutano a fermarsi in tempo, e quante vite ha salvato l’immaginazione (il filosofo Hans Jonas ne ha fatto addirittura uno degli elementi fondamentali della sua etica della responsabilità).
Nessuna ‘fase 2’ ci avrà restituito davvero la libertà se, riaperte le porte di casa, non ricorderemo una verità fondamentale: le ragioni della vita valgono più della vita. Ecco perché sarebbe ora che le autorità ci trattassero da adulti e ammettessero che lo Stato e la scienza, per quanto organizzati e potenti, non potranno proteggerci da ogni pericolo, che faremo immensi sforzi per salvare vite umane ma non ‘qualsiasi cosa’, perché l’unico modo per ‘vivere a rischio zero’ è morire, e che la ‘fase 2’ consiste anzitutto nella presa di coscienza che di ‘attività strettamente essenziali’ si può vivere per un tempo molto limitato.
Sì, proprio ora, mentre giustamente lottiamo tutti per conservare la nostra vita – e assicuro che il sottoscritto tiene moltissimo alla propria – dobbiamo affermare che «in qualunque modo purché si viva» non è un principio accettabile. Una modesta proposta finale. La relazione con la morte, si sa, è una delle costanti antropologiche: ‘il culto dei morti’ e il seppellimento dei cadaveri battezza trasversalmente l’inizio della civiltà umana, come insegna l’antropologia culturale.
Forse, allora, oltre che alla sacrosanta preoccupazione per la ripartenza economica, è giusto contemplare tra le priorità anche un saluto ai defunti che sia degno della nostra civiltà. È il rapporto alla trascendenza, infatti, che ci tramuta da esseri viventi in esseri umani e custodisce la nostra libertà.
Laura Paoletti dice
Nota redazionale
Il Forum riceve molti post e di questo gli amministratori non possono che rallegrarsi. Gli interventi, tuttavia, non possono che essere scaglionati nelle due previste uscite settimanali. Non possiamo che scusarci con i generosi e pazienti autori. La nostra attenzione, comunque, fa sì che l’argomentare di ogni post, quando sia legato a questioni attuali, non risulti superato e, anzi, si adatti ancor di più allo stato dell’arte dei temi che affronta. E’ il caso del post odierno
Alfonso Lanzieri dice
Egregio Prof. D’Agostino, la ringrazio del tempo che ha voluto dedicare a queste righe e del giudizio così benevolo. Mi dà l’occasione per dire che si tratta di un testo scritto un mese e mezzo fa, ma che trova ora forse la migliore collocazione temporale. L’allentamento delle restrizioni, infatti, credo restituisca a tutti una maggiore serenità d’animo per riflettere su ciò che abbiamo vissuto, al netto delle rispettive posizioni.
Francesco D’Agostino dice
Mi rallegro molto con Lanzieri: stile, argomentazioni e garbo impeccabili.
Francesco D’Agostino