La mancanza di un indirizzo autenticamente nazionale ha finito per esaltare, da un lato, il conflitto fra i vari gruppi sociali, da un altro lato la nostra subordinazione al gioco delle potenze sul piano internazionale. La competizione fra est e ovest ha investito i partiti istituzionalizzando il conflitto presente nella società italiana, impedendo qualsiasi sintesi autenticamente nazionale e spingendo i partiti verso pratiche compromissorie talvolta occulte, talaltra manifeste.
Questa condizione, questi fatti hanno condotto ad una seconda dis-fatta: la corporativizzazione della società, priva di un autentico momento di sintesi.
Ciascun gruppo sociale si è creato una sua dimensione istituzionalizzata (sindacati, associazioni…) che ha subordinato a sé la mediazione tendenzialmente generalista degli stessi partiti contribuendo a svuotarne la ragion d’essere. Il settore pubblico, di conseguenza, è divenuto il luogo da sfruttare per il proprio interesse settoriale; il luogo di una compensazione continua degli interessi in campo. In altri termini il latente e spesso manifesto, aspro conflitto sociale è stato ‘mediato’ (senza, però, che fosse mai possibile una vera sintesi) grazie al consumo delle risorse pubbliche.
Così, a partire dal ventennio (1948-1968) della ricostruzione, sempre più spesso i tassi di crescita nominali non hanno retto il confronto con il tasso di interesse nominale sul debito, con il conseguente sostanzialmente costante aumento del debito pubblico.
A sua volta la cultura che ha cominciato ad affacciarsi alla dimensione pubblica intorno alla seconda metà degli anni Sessanta, la cultura che veniva sostituendo quella del pre-fascismo, che era sopravvissuta ancora nel periodo della ricostruzione, non è stata in grado di trascendere i limiti della condizione sociale ed economica italiana sinteticamente indicata qui sopra.
Non che non vi fosse chi aveva compreso l’inizio del declino. Questi, però, erano esponenti piuttosto della cultura tecnica che di quella umanistica; dunque, di una cultura che, chiusa nelle istituzioni, non riusciva ad esprimere una qualche egemonia sul piano generale.
Su questo piano la cultura, all’interno della quale anche chi scrive ha svolto il suo itinerario, sulla base del grande sviluppo economico degli anni Sessanta si era attestata, per usare una espressione marcusiana, sull’idea del superamento del principio di prestazione e su una nuova egemonia del principio del piacere. Si è illusa, cioè, del fatto che l’opulenza raggiunta in occidente fosse un dato stabile; che dunque l’edonismo (mi si perdoni il termine desueto e compromesso) risolvesse in sé l’autentico umanismo. Ha creduto, ingannevolmente, che il suo compito dovesse essere solo quello di decostruire le sovrastrutture concettuali e istituzionali del nostro mondo. Ha ritenuto erroneamente che fosse sufficiente il pensiero negativo.
È interessante a tal proposito notare che la negazione ben si accordava con le fratture storiche della nostra società. Mediante essa quelle fratture potevano essere rimodulate, ‘aggiornate’, ripresentate sotto una nuova forma all’altezza dei tempi, e perciò non mai veramente superate.
Non ci si è accorti che con il passare dei decenni la dissacrazione, la negazione, la liberazione dei valori dalle regole finivano per esaurirsi lentamente e per consegnarsi a regole più flessibili ma non meno dure. Finivano per concedersi all’egemonia dello sfruttamento dell’edonismo: alle organizzazioni economiche dedicate ad esempio all’utilizzazione del corpo della donna (utero in affitto), all’eugenetica razionalistica, all’utilizzazione dei tessuti degli esistenti non mai nati… Finivano per convertirsi in un’etica degli orrori.
Naturalmente molte altre possono essere indicate come dis-fatte del nostro Paese. Una fra le altre l’abbandono di ogni speranza di redenzione per il nostro Meridione. Molte, viceversa, le vittorie: una grande fioritura degli studi giuridici e della ricerca scientifica, un grande sviluppo delle industrie presenti sul mercato internazionale, un pensiero filosofico tuttavia curioso e anti-dogmatico… Molti i fatti e molti i misfatti. Si potrebbe anzi in questa materia procedere come il lettore di Se una notte d’inverno un viaggiatore, costretto di volta in volta ad interrompere la lettura e ad intraprenderne un’altra. Così, se si volesse in sintesi indicare i nostri vizi e la virtù che spesso ci caratterizza, dovremmo ripeterci l’aforisma di Flaiano: «Certi vizi sono più noiosi della stessa virtù. Soltanto per questo la virtù (nostra) spesso trionfa».
Tito Marci dice
Andrea Bixio in questo piccolo, ma incisivo, testo, ripercorre gli splendori e, soprattutto le miserie del nostro Paese , i fatti e dis-fatti che nell’incomprensione del ruolo storico assegnato alla “nazione” rispetto a ciò che di essa costituisce invece una deformazione (nazionalismo, colonialismo, internazionalismo) hanno depotenziato la vocazione “universale” della cultura italiana a partire dalla sua figurazione rinascimentale.
La rinuncia ad una autentica tensione universalista e umanista ha significato, e ancora significa, una subordinazione acritica ai particolari domini (sociali, culturali, politici e ideologici) che di quella tensione rappresentano soltanto la messa in scena sterile, caduca e corrotta, dissimulata nell’efficienza calcolante del pensiero tecnico e funzionale, da un lato, e della corporativizzazione della società secondo interessi settoriali incapaci di superare i conflitti verso le più alte sintesi di una matura pacificazione politica e sociale, dall’altro.
Sul piano nazionale, e soprattutto internazionale, lo scritto sembra, dunque, denunciare i pochi splendori e le molte miserie della nostra “Cortigiana”.
Tuttavia, ciò che in fondo sostiene il testo è, a mio parere, il flebile ma distinguibile bagliore di una possibile redenzione sul piano storico e spirituale: una redenzione preminentemente culturale, affidata ad un pensiero critico capace ancora di riconoscere nel proprio orizzonte storico i tratti di ciò che trascende i limiti di questo stesso orizzonte. Ed è proprio a questo tenue bagliore, in fin dei conti, che questo scritto ci invita, adesso, a guardare.