Come ripensare le città dinanzi alla sfida del cambiamento climatico? Le città sono infatti il luogo in cui abitiamo, essendo ormai divenuti, noi umani, esseri specializzati nella vita urbana. Il che, se ha certo garantito alla nostra specie un aumento di funzionalità in moltissimi ambiti – trasporti, sanità, scuole, servizi –, ha comportato l’inevitabile allontanamento dalla nostra casa naturale.Da troppo tempo ci siamo posti al di fuori della natura, dimenticando che rispondiamo agli stessi fondamentali fattori che controllano l’espansione delle altre specie. Basti pensare che nel 2050 il 68% dei 9,7miliardi di abitanti del pianeta Terra vivranno in città dalle quali già adesso proviene il 70% delle emissioni di biossido di carbonio, maggiore responsabile dei cambiamenti climatici. Non a caso per definire il nome dell’epoca geologica che segna la rottura dell’alleanza tra uomo e natura si propone, oltre al noto Antropocene, il termine Urbanocene.
Le città come oggi le viviamo non sono compatibili con il nostro futuro: le ondate di calore saranno sempre più alte, le piogge avranno un’intensità superiore, gli eventi catastrofici aumenteranno. Per questo dovremmo adottare nuovi paradigmi per riformarle, vedendole come luoghi nostri, ricordando che le strade non servono soltanto alle macchine, ma soprattutto riportando la natura all’interno del nostro habitat e trasformando per quanto possibile il cemento che le ricopre, in parchi. Si tratta pertanto di definire le direzioni progettuali di città che si trasformino seguendo non le direttrici lineari e quantitative delle metropoli energivore e consumistiche ma i principi circolari degli ecosistemi naturali, cercando di avvicinare il più possibile l’artificialità di un sistema urbano alle regole dell’ecologia. È questo il progetto delle Biocities, illustrato in un volume collettaneo Transforming Biocities. Designing Urban Spaces Inspired by Nature (2023, Springer) a cura dell’architetto Stefano Boeri.
Occorre, a suo avviso, iniziare da oggi per costruire un futuro diverso, a partire dagli alberi che sono uno strumento efficace, economico, inclusivo. Ogni albero, infatti, crea ombra, ripulisce l’aria dall’inquinamento da polveri sottili, contribuisce alla biodiversità e alla salute umana; il verde, inoltre, contrasta l’aumento delle temperature e aumenta la permeabilità del suolo. Tutto ciò può essere sintetizzato in una formula: 3-30-300. Cosa significa? Ognuno di noi dovrebbe poter vedere da casa sua almeno 3 alberi, vivere in un quartiere con almeno il 30% di alberi e poter raggiungere un parco entro 300 metri. Occorre certo – avverte Boeri – piantare alberi ma soprattutto curarli nel modo giusto dopo averli messi a dimora. Le piante, inoltre, stanno meglio se vengono piantate a piccoli gruppi: un boschetto in un’aiuola ampia o in una piazza, per esempio, regala frescura, è più resistente e diventa una piccola oasi di biodiversità.
No a capitozzature e a potature selvagge che indeboliscono e uccidono le piante, no ad auto parcheggiate sulle radici: bisogna rispettare le loro radici anche quando si scava per posizionare le tubazioni urbane. Come non pensare a quanto scriveva Luigi Pirandello sugli alberi: «in fondo ad una delle vie più larghe e più popolate di Roma, che fan veramente pietà. Son venuti su miseri e squallidi, ed han quasi un’aria smarrita, come se chiedessero che stieno a farci lì, tra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestio della vita cittadina».
Il volume, che delinea un progetto non facile da avviare, segnala tuttavia programmi già intrapresi per giungere agli ambiziosi obiettivi delle biocittà. Esiste già un network internazionale di circa 100 sindaci delle maggiori metropoli – da Parigi a Londra a Bangkok a New York – che sta lavorando al progetto di cambiare la città per renderla più sostenibile, trovando soluzioni per abbattere i gas serra e contenere l’innalzamento delle temperature e accompagnando quotidiane azioni di tutela e corretta gestione del verde storico o contemporaneo esistente.
Città viventi, dunque, in cui gli spazi urbani siano ripensati in funzione e grazie a l’ispirazione della natura. È questa anche la tesi centrale di Fitopolis la città vivente (2023, Ed. Laterza), l’ultimo libro del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso. La forestazione urbana, lo sappiamo, è fondamentale sia per il suo effetto diretto sul microclima che per il benessere delle persone: quindi città più sane per gli esseri umani e gli ecosistemi. Ma il progetto delineato in Fitopolis prevede non solo di riaggiustare i rapporti con gli altri esseri viventi, destinando gran parte della superficie di una città alle piante – il contrario di quel che avviene oggi – ma di trarre ispirazione dalle piante stesse con cui l’uomo è coevoluto. Il discrimine principale tra le città che si potranno adattare al riscaldamento globale e quelle che ne subiranno le conseguenze sarà rappresentato dalla quantità di alberi e di vegetazione presenti al loro interno. Per illustrare la struttura di Fitopolis Mancuso si serve di una metafora suggestiva, quella del mondo vegetale. Una città moderna, a suo avviso, dovrebbe ispirarsi a una struttura vegetale, diffusa, ramificata, in continuità con il resto del vivente. È il concetto stesso della città dei 15 minuti secondo cui, dovunque tu sia, nel raggio di 15 minuti a piedi dovresti essere in grado di trovare a una distanza ragionevole tutto ciò che ti necessita per la vita quotidiana: un ospedale, un cinema, un’università, una biblioteca etc. Sono ovviamente prevedibili le reazioni di coloro che diranno che, sì, sarebbe bello ma prima bisognerebbe migliorare l’efficienza dei nostri mezzi pubblici, per non parlare dei ‘benaltristi’ secondo cui i problemi delle città sono ben altri… E tuttavia, prima di liquidare la proposta di Mancuso come una generosa utopia, dovremmo forse rammentare che la politica ha bisogno anche di immaginazione, ovvero della capacità di figurarsi la realtà in modo differente. Purtroppo la maggior parte dei cittadini e di coloro che amministrano le nostre città – nota amaramente Mancuso – continua ad agire come se il problema non esistesse, anche se dovremmo ormai essere consapevoli che questioni come la tutela dell’ambiente, la limitazione dello spreco del suolo, un’economia circolare che sostenga un’agricoltura e una produzione alimentare pulita e giusta riguardano tutti noi: «In ogni modo nulla si potrà ottenere senza innovazione non solo tecnologica ma soprattutto sociale. Abbiamo bisogno di innovare immaginando forme di governo globali che siano in grado di ridurre al minimo il consumo dei beni comuni prima che ci si avvicini a soglie critiche le quali, una volta varcate, non potranno più essere recuperate o lo potranno soltanto a costo di grando sacrifici».
Forte è il legame tra una società giusta e un ambiente sano. L’innalzamento delle temperature, l’inquinamento delle nostre città sono fatti che – per quanto si possa cercare di ignorarli – avranno effetti diretti sulle nostre vite e i dati ci dicono che oltre il 70% del consumo mondiale di energia e il 75% del consumo di risorse naturali sono a carico delle città. Saranno i giovani a sopportare le conseguenze più dure dell’emergenza climatica e, insieme a loro, anche le aziende destinate a scomparire se non sapranno comprendere un mondo nuovo. Ecco perché da come immagineremo le nostre città nei prossimi anni dipenderà una parte consistente della nostra sopravvivenza.
Alessandro Cavalli dice
Da una civiltà fondata sullo sfruttamento della e il dominio sulla “natura” bisogna arrivare a un nuovo patto tra specie umana e natura, animale e vegetale. Questo richiede una forma di governo che sappia raccordare il globale e il locale, passando eventualmente, se non se ne può fare a meno, per il nazionale. Sul locale abbiamo le città, sul globale siamo ancora indietro, l’ONU certo non basta.