Decenni fa, da studente, rimasi colpito dall’insegnamento di due studiosi che hanno edificato scuole nell’ambito degli studi giuridici. Avevo letto avidamente L’interpretazione della legge di Giovanni Tarello, che in conclusione presenta quindici argomentazioni per interpretare una legge e quindi applicarla, se del caso. Giuseppe Di Federico invece mi aveva spiazzato, facendomi osservare che se si comparano il funzionamento concreto dei sistemi di common law e di quelli a codificazione non ci sono poi grandi differenze, perché anche in questi secondi il magistrato decide in modo discrezionale quali azioni giudiziarie avviare e rispetto a quali reati. Dunque – se non ho stravolto il senso dell’insegnamento di questi due Maestri: la legge s’interpreta e il reato si persegue quando il magistrato ritiene opportuno.
Perché allora così tanti “giuristi fondamentalisti” occupano posizioni di responsabilità nelle Procure, nei Tribunali e nel CSM e brandeggiano il testo della Costituzione Italiana contro qualsiasi tentativo di riformare il sistema giuridico italiano? Li chiamo ironicamente – ben inteso – “giuristi fondamentalisti” perché per loro dovrebbero valere gli opposti: il giudice applica oggettivamente la legge; il giudice interviene sempre.
Il problema dell’interpretazione del diritto è evidente in così tanti casi giuridici, da quelli cruenti e più efferati (omicidi, stupri) a quelli con impatto socio-economico. Per esempio, nel 1998 destò molto scalpore una sentenza della Cassazione che annullava la condanna per stupro ad un uomo, in quanto la ragazza vittima indossava jeans molto attillati che non sarebbe stato facile sfilare, se non con l’assenso della stessa. Si potrebbe forse maliziosamente sospettare che gli attempati giudici della Cassazione, negli anni della loro gioventù, devono aver avuto qualche difficoltà nello sfilare pantaloni a partner più o meno consenzienti, per essere giunti a conclusioni così perentorie nel caso a loro sottoposto. Oppure, per restare all’attualità, prendiamo il caso dei migranti intercettati in acque internazionali e del tentativo del governo italiano di confinarli in Albania, a Gjader, in attesa di riportarli nei paesi sicuri di loro provenienza. Cosa rende un luogo sicuro? Basta un elenco stilato da qualche organizzazione internazionale a dirimere la faccenda? Evidentemente no. Le scienze sociali hanno profuso quantità di studi sul concetto di sicurezza, sugli indicatori per misurarne l’andamento, sui risultati comparati dell’applicazione di metodi di rilevazione degli episodi di violenza, sulla loro classificazione. Tutto questo richiede ricerche approfondite, costose e di lunga durata. Il giudice studia i casi? Li conosce davvero? Conosce i risultati delle ricerche dedicate a quei fenomeni rispetto ai quali decide? Evidentemente no, perché non gli è richiesto dal suo ruolo di esecutore oggettivo del diritto e perché deve decidere in poche udienze, leggendo qualche codice e qualche elenco di “paesi sicuri”. Dunque è evidente che il giudice interpreta i pochissimi dati in suo possesso e decide discrezionalmente quali indumenti si sfilano facilmente o quali paesi siano sicuri.
Si dirà, “Beh, qualche errore passi. È fisiologico, l’importante però è la continuità dell’azione giudiziaria e la sua ineludibilità”. Questa frase ci conduce all’altro assunto (falso) della cultura giuridica italiana: che, in quanto obbligatoria, l’azione giudiziale sia sempre ed ovunque. Questa cosa naturalmente non è possibile, per una quantità di ragioni, alcune che possiamo rapidamente elencare senza che sia necessario discuterle: non tutti i fatti criminali o sanzionabili giuridicamente sono osservabili, alcuni sfuggono; qualora siano osservati da qualcuno, non tutti questi fatti vengono riportati all’autorità giudiziaria; qualora anche vengano riportati all’autorità giudiziaria, può darsi che questa non sia in grado di produrre evidenze (il “mariuolo” non viene beccato o “incastrato”); quando anche vengano riportati all’autorità giudiziaria, difficoltà o resistenze organizzative (deficit implementativo: p.e., carenza di organico, impegno su altre linee d’indagine, preferenza per altre linee d’indagine, termini di prescrizione e così via) possono impedire o rimandare sine die l’azione; infine, come ben sappiamo, spetta pur sempre al giudice decidere discrezionalmente se sia opportuna o meno l’azione giudiziaria rispetto a un fenomeno osservato o riportato.
Insomma, i nostri Maestri avevano ragione. Tarello e tutta la tradizione della filosofia del diritto a segnalare il carattere interpretativo della legge nella sua applicazione; Di Federico e gli studi sui sistemi giuridici a rivelare le insospettate similitudini tra il diritto consuetudinario (dove il giudice agisce politicamente, scegliendo se e quando applicare le norme) e il diritto codificato (dove la selezione mirata dei casi da aggiudicare è in definitiva anch’essa politica).
Qui stanno le ragioni – ma infondate – dei giuristi fondamentalisti, infatti se davvero l’applicazione del diritto fosse un fatto meccanico e oggettivo e se tutte le azioni meritorie di sanzione fossero perseguite e sanzionate sempre in modo equivalente, che ragione ci sarebbe di chiedere la separazione del persecutore (PM) dal giudicatore? Uno varrebbe l’altro.
Giuliano Vassalli aveva amaramente da constatare che il “modello accusatorio” del procedimento penale non poteva realizzarsi pienamente senza la separazione delle carriere dei magistrati, che facesse del “giudice” davvero il terzo tra l’accusa (PM) e la difesa. Questa separazione avrebbe dovuto essere in definita l’elemento complementare e tuttavia sine qua non dell’introduzione del modello accusatorio, ma ancora lo stiamo aspettando.
Mauro Barberis dice
Iera e Cofy, non scherziamo. Come scriveva un liberale di destra come Bruno Leoni, che almeno di diritto qualcosa ne sapeva, l’unica certezza del diritto reale è quella a lungo termine assicurata dai giudici. Non a caso la giustizia digitale predittiva, che ha per fine la certezza, si basa proprio su quel modello lì. Ieraci, che è stato allievo di Stoppino nella Pavia di Leoni, queste cose dovrebbe saperle. Su Cofy invece dico solo: c’erano una volta il liberalismo, la separazione dei poteri e la certezza del diritto
Giuseppe IERACI dice
Barbe, non so come la vedi tu, ma l’unica certezza è che si ti mettono in galera, ci devi stare.
Il problema che pongo è un altro: siamo sicuri che i fatti “acclarati” siano sufficienti a sbatterti dentro? Questo lo decide il giudice. E fin qua siamo d’accordo, non intendevo contestarlo. Che quello che il giudice decide sia “certo” è un’altra tautologica certezza.
Ma visto che quello che sbatti dentro non è mai d’accordo, anche se reo confesso di aver tagliuzzato come salame la sua povera madre indifesa, ecco che in tutti i paesi del mondo separano chi lo accusa da chi lo giudica. Tutto qua. Non so cosa tu abbia capito, ma forse sono io ad essermi spiegato male. Sorry.
Di Bruno Leoni conosco Freedom and the Law. Non mi è sembrato un libro tanto giustizialista. Ironia della sorte, il povero Leoni ha fatto una fine abbastanza “certa” (dal punto di vista del codice penale).
Dino Cofrancesco dice
Sempre ineccepibili gli interventi di Giuseppe Ieraci! Ancora una volta non si poteva dire meglio..