Per spiegare la crisi permanente del nostro sistema politico, e la difficoltà di dare ad esso un assetto stabile, spesso i commentatori non mancano di ricordare il rapido tramonto delle culture politiche che hanno caratterizzato quella che si è soliti definire come prima repubblica. Circa trenta anni addietro, in un breve volgere di tempo, quelle che erano le coordinate valoriali e cognitive che indirizzavano le scelte dei cittadini sembrano essersi dissolte, senza lasciare una traccia visibile.
Si tratta di una osservazione che non è priva di una sua forza euristica. Effettivamente le culture politiche che abbiamo conosciuto nel lungo secondo dopoguerra (catolica, socialista, comunista, laica) da tempo non hanno più un forte riscontro nelle motivazioni elettorali e non orientano più in modo significativo le scelte dei cittadini. Tuttavia, questa spiegazione, per quanto sia ragionevole e fondata, non dice tutta la verità. Pertanto, per cercare di capire le ragioni della crisi costante del sistema politico italiano conviene sottolineare un altro aspetto, troppo spesso trascurato dai commentatori.
La prima repubblica si sosteneva su di un assetto partitocratico (un termine che adoperiamo, sarà il caso di avvertirlo, in senso descrittivo e non assiologico). Erano i partiti, infatti, ad assicurare la tenuta del sistema e le diverse culture partitiche contribuivano a garantirne la coesione, assicurando la vischiosità dei consensi.
Anche la forma di governo parlamentare, fissata dalla costituzione, nella pratica era stata ridisegnata in chiave partitocratica. Tra il 1948 ed il 1992, nessuna crisi di governo ha avuto origine in parlamento ma tutte, sempre, sono state originate dalla decisione di uno dei partiti che faceva parte delle varie coalizioni di governo.
Dopo la fine repentina della prima repubblica non si è imboccata la via maestra di una riscrittura costituzionale condivisa per fissare un nuovo assetto del sistema. Questo è successo soprattutto perché è mancata la consapevolezza della sua urgenza. Empiricamente, allora, si è provato a costruire un nuovo equilibrio partitocratico. Nella nuova arena politica, non più centrista ma orientata sull’asse destra/sinistra, sono sorte nuove compagini politiche. Forza Italia poi il Popolo della libertà e poi di nuovo Forza Italia da un lato, l’Ulivo e poi il Partito democratico dall’altro. Tuttavia, nei gruppi dirigenti di queste formazioni politiche non si è sviluppata una piena solidarietà che rendesse omogenei e coesi i nuovi partiti. A impedire questo processo hanno pesato in maniera decisiva le culture politiche di provenienza di ciascuno. I nuovi partiti, infatti, sono stati sempre sommatorie di spezzoni di vecchie culture politiche e non organismi vitali in cui ciascuno dava il suo contributo a una nuova sintesi. Una conferma di questo assunto la offre anche l’attuale compagine di governo. La coalizione di centro destra, infatti, si compone di tre partiti ben distinti che si richiamo a diverse culture politiche.
In sostanza, mentre nel Paese le vecchie culture politiche erano sempre meno decisive per guidare l’elettore comune nelle sue scelte, nell’universo politico le culture politiche tradizionali restavano un fattore decisivo per determinare l’attitudine delle forze politiche.
Ovviamente, il fattore che abbiamo indicato non è stato l’unico motivo che ha determinato la irrisolta crisi del sistema politico nazionale. Decisiva, a mio avviso, è stata la mancanza di una riforma costituzionale condivisa. Inoltre, un ruolo importante, per non dire esiziale, lo hanno svolto le formazioni minoritarie, ma capaci di condizionare negativamente il centro destra e il centro sinistra nell’arco di questo trentennio. Partiti di nuova (la Lega, il Movimento 5stelle) e di vecchia demagogia (Rifondazione nei suoi vari avatar) hanno impedito lo sviluppo di una cultura di governo credibile su entrambi i lati dello schieramento politico. Tuttavia, se si vuole intendere la crisi permanente del nostro sistema politico il peso negativo del fattore ‘culture politiche della prima repubblica’ non può essere trascurato.
Salvatore Prisco dice
Stimolante analisi, che leggo solo ora e che condivido laddove sostiene che per un lungo periodo della storia repubblicana (nonostante l’ordine del giono Perassi alla Costituente) i partiti decidevano, il Parlamento rappresentava – proprio in senso teatrale, di una recita che velava quali fossero i veri decisori – e il governo eseguiva. Tuttavia non direi che è mancata una riforma costituzionale, nel senso che fosse necessario uno sconvolgimento di forma di governo: bastava attuare quel lontano ordine del giorno e rafforzare l’Esecutivo e il suo Presidente senza però depotenziare Parlamento e Presidente della Repubblica, come prova ora a fare invece il “premierato elettivo”, che sposta la legittimazione del governo in sostanza fuori dalle Camere (anche se formalmente la fiducia resta) attraverso il meccanismo del “simul – simul”, per cui – se una delle Camere sfiducia il Governo – lo uccide, ma tendenzialmente si suicida anche: quale Camera a questo punto lo farebbe? Vero inoltre, che sopravvivono ancora le culture politiche “classiche” del dopoguerra, ma sono cambiate le consuetudini costituzionali. Un solo esempio: con la DC l’incaricato era il democristiano la cui corrente era stata premiata o non penalizzata alle elezioni e durante la legislatura il democristiano che riusciva a imporsi sugli altri, oggi il leader di quel partito della coalizione vincitrice che si è direttamente imposto sugli altri, ossia si è indebolita la mediazione
Dino Cofrancesco dice
Le analisi di un fine studioso come Maurizio Griffo vanno prese sempre in seria considerazione. Credo pero’ che alle origini della crisi ci sia il tramonto definitivo dello stato nazionale.La pluralità delle culture, senza i solidi argini istituzionali di una comunità politica, in cui tutte si riconoscano, produce acquitrini e paludi in cui finiscono per affondare tutti i partiti, specie quelli di recente costituzione.Rimedi? Se ne fossi a conoscenza farei il politico.non il pennarulo…