Vediamo se Giorgia Meloni riuscirà là dove hanno fallito Craxi, D’Alema, Berlusconi e Renzi. Intanto, la proposta di riforma costituzionale delineata un po’ riecheggia quella introdotta in Israele nel 1992, con effetti così contraddittori da venire abolita nel marzo del 2001. Nella ‘controriforma’ del 2001 i costituenti israeliani introdussero la ‘sfiducia costruttiva’ e conservarono il potere di scioglimento della Knesset da parte del primo ministro, ora ‘non più’ eletto direttamente.
Il sistema italiano diventerebbe una sorta di ‘parlamentarismo con Presidente’, come il modello israeliano del 1992-2001. Il Presidente del Consiglio (PdC) eletto direttamente, a turno unico e maggioranza semplice dei votanti, conterebbe su un premio di maggioranza; il parlamento non potrebbe sfiduciarlo, se non scegliendo un nuovo PdC all’interno della maggioranza uscita vincente dalle elezioni; forse questo giochino lo si potrebbe fare un paio di volte e poi basta.
1) Parlamentarismo con Presidente o Presidenti? Qui si tratta di capire se l’azione dell’elettorato è finalizzata all’elezione del PdC o della sua maggioranza. La risposta dei proponenti è scontata: di tutte e due. Tuttavia, rispetto al modello del ‘Sindaco d’Italia’ cercato anni fa da Renzi, qui si ammette che se quella maggioranza vuol far fuori il PdC eletto ne ha facoltà, basta che il nuovo leader sia scelto tra qualche deputato o senatore delle sue stesse fila. La norma sembrerebbe una costituzionalizzazione della ‘staffetta governativa’. Ma a parte questo, si pone una questione etico-politica. Gli elettori avrebbero sì votato per ‘una’ maggioranza e – si è detto – anche per ‘un’ PdC. Perché allora si ammette che ‘tanto fa lo stesso’ se poi a guidare il governo ci va un altro – non scelto, non votato dall’elettorato?
2) Il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica. Tutti sanno che in Italia proporre il presidenzialismo ‘tout court’ sarebbe molto arduo. Da qui l’invenzione dell’elezione del PdC. Tuttavia, i poteri del Presidente della Repubblica (PdR) non verrebbero toccati. Avremmo cioè un PdC eletto dal popolo e un PdR eletto dal legislativo – come avveniva in Israele.
Senonché in questi decenni i poteri ‘de jure’ del PdR sono cresciuti ‘de facto’ in modo significativo – per chi volesse, di questo ci siano già occupati in Paradoxaforum, De facto o de jure, siamo una repubblica semipresidenziale?, 25.11.2021. La riforma proposta da G. Meloni lascerebbe inalterati questi poteri del PdR, nella nomina dei ministri e nella conduzione vera e propria della linea del governo. Rispetto al primo ambito, si può ricordare il caso Mattarella-Savona nel maggio 2018, basato su una controversa interpretazione dell’articolo 92 della Costituzione italiana (‘Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i ministri’). C’erano stati in un passato non molto remoto alcuni casi analoghi – sotto le presidenze Pertini, Scalfaro, Ciampi e Napolitano, che rifiutarono la nomina di alcuni ministri proposti – , ma nel caso Mattarella-Savona ci fu una novità: mai prima un PdR aveva di fatto impedito a un governo ‘formato’ (il Conte I) di presentarsi alla Camera e al Senato per l’investitura. Cosa succederà al PdC elettivo se il PdR dovesse ‘mettersi di traverso’?
3) Chi governa, il Presidente elettivo o quello ‘legislativo’? Un ulteriore ‘conflitto istituzionale’ tra i due Presidenti è ipotizzabile nell’altro ambito, quello della conduzione del governo. Tralasciando la celebre intemerata di Pertini contro Forlani nel novembre 1980, pronunciata in diretta TV dai luoghi del terremoto in Irpinia, il conflitto tra Scalfaro e i governi del centro-destra è storia più recente, così come le spinte di Ciampi e Napolitano a sostegno di governi tecnici e di centro-sinistra, definiti forse non a torto ‘governi del presidente’. Questi presidenti hanno condizionato la linea politica, usando il potere di revisione costituzionale come un veto implicito sull’azione governativa. I PdC ‘sotto’ Scalfaro e Napolitano si rivolgevano a questi e ai loro uffici per avere un parere preventivo sulla costituzionalità dei loro provvedimenti e sulla disponibilità a firmarli. Cosa succederà se il PdC elettivo – cinque anni in carica – si dovesse trovare a fare i conti con un PdR – sette anni in carica – avverso, magari perché eletto in precedenza da un legislativo con una maggioranza diversa? Si noti che con l’elezione diretta del PdC a maggioranza semplice, più sono i candidati in lizza più è probabile una frammentazione del voto. Nelle ultime elezioni del 2022 la coalizione Meloni ha raccolto il 43,8% del voto, ma si possono facilmente immaginare situazioni future in cui tre o più coalizioni si fronteggino in condizioni di quasi parità. Un PdC eletto direttamente con – supponiamo – il 30% o anche meno dei voti potrebbe dover fronteggiare un PdR eletto dal legislativo invece con un largo consenso trasversale. È vero che il PdC avrebbe dalla sua il premio di maggioranza, ma la legittimazione simbolica del quale godrebbe il PdR lo porrebbe oggettivamente in una posizione di forza o quanto meno di quasi-parità con il PdC elettivo.
La cosa che lascia più perplessi non è l’elezione diretta del PdC ma tutto ciò che le sta attorno. Davvero si crede di rafforzare la sua posizione costituzionalizzando ‘la staffetta’ e ignorando i suoi rapporti con il PdR? Ci sarebbero due modi molto più diretti e semplici già adottati da molti ‘parlamentarismi razionalizzati’ dell’Europa per rafforzare gli esecutivi: il voto di sfiducia costruttiva e il potere di scioglimento del legislativo attribuito al PdC. In Israele l’hanno capito rapidamente e, tolga la bizzarria di un ‘parlamentarismo con presidente’, nel 2001 hanno introdotto questi due meccanismi istituzionali.
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