Netanyahu e Orbán scuotono il mondo democratico con i loro tentativi di limitare il potere giudiziario. La riforma di Netanyahu – al momento congelata – consentirebbe al governo di intervenire nelle nomine dei giudici e alla Knesset di rovesciare le decisioni di incostituzionalità sulla legislazione ordinaria emesse dalla Corte Suprema, reintroducendo il provvedimento legislativo con voto favorevole a maggioranza. Orbán con la riforma del 2018 ha attribuito al ministro della Giustizia il potere di nomina dei giudici, la determinazione del loro stipendio e delle loro promozioni. Il mondo democratico è insorto, Netanyahu e Orbán sono stati trattati come due fascisti dell’ultima ora. Non voglio turbare questa opinione diffusa tra noi democratici, non m’interessa minimamente difendere i due, ma vorrei svolgere alcune considerazioni sul rapporto complesso tra potere politico e potere giudiziario. Prima questione: potere politico e potere giudiziario sono separati? Seconda questione: da cosa traggono la loro legittimità i due poteri? Terza e ultima questione: il pronunciamento del potere giudiziario è superiore in quanto oggettivo?
I poteri in democrazia non sono mai completamente separati, un sistema perfettamente bilanciato di pesi e contrappesi – come notava C.J. Friedrich in Governo costituzionale e democrazia, si consegnerebbe all’immobilismo, allo stallo. I poteri legislativo ed esecutivo sono fusi nella tradizione del costituzionalismo inglese (il cabinet system, che noi riprendiamo nel ‘sottosistema governo-parlamento’), dalla quale si dipana una buona parte del pensiero e della pratica costituzionale continentale. Inoltre, in molte democrazie contemporanee la componente inquirente della magistratura è controllata o legata all’esecutivo. Già McIlwain in Constitutionalism and the Changing World del 1939, ma poi von Hayek in The Constitution of Liberty (1960), noto al pubblico italiano con il titolo La società libera, contestavano la lettura montesquieuiana della separazione dei poteri. Il potere giudiziale condiziona il potere politico, perché agisce sulle decisioni politiche. Bruno Leoni (Freedom and the Law, 1961) denunciava l’azione del diritto amministrativo nel limitare la libertà individuale, quindi l’impatto politico dell’operato del giudice.
La fusione dei poteri è evidenziata anche dal fatto che parte dei giudici supremi sono di nomina politica. L’art. 135 della Costituzione Italiana ammette la nomina politica di ben due terzi dei Giudici Costituzionali (da parte del Parlamento e del Presidente della Repubblica, per un terzo ciascuno). Negli USA i giudici della Corte Suprema sono nominati dal Presidente e votati dal Senato. In Germania i giudici dei Tribunali federali vengono nominati dai ministri competenti – e non mi risulta ci siano stati in questi decenni sommosse popolari contro questa ‘usanza’ – mentre quelli della Corte Costituzionale Federale sono nominati metà dal Bundestag e metà dal Budesrat. I nove giudici del Consiglio Costituzionale della Francia vengono nominati tre dal Presidente della Repubblica (che sceglie anche il presidente), tre dal Presidente dell’Assemblea Nazionale e tre dal Presidente del Senato. Si noti che, escluse le fasi di ‘coabitazione’, in pratica tutti i nove giudici costituzionali francesi vengono normalmente scelti dalla maggioranza partitica che ha vinto le ultime elezioni. Nessuno – mi risulta – ha mai considerato USA, Inghilterra, Germania e Francia paesi fascistoidi per queste regole costituzionali à la Orbán.
Venendo alla seconda questione, osserviamo che in democrazia la legittimità del politico e del giudice cozzano. Il politico è eletto dal basso, il giudice è cooptato dall’alto, dai suoi pari. Quando si tratti di una questione politica, cosa ci spinge a considerare il giudizio del giudice superiore o migliore di quello del politico? Suppongo una visione platonica, che ritenga impossibile una res publica non sottoposta al controllo di qualche filosofo o ‘mente superiore’, che accerti la bontà delle decisioni stesse. Questo pregiudizio per fortuna è più o meno temperato ovunque negli ordinamenti giuridici delle democrazie contemporanee, nessuna delle quale attribuisce a un tribunale o a un giudice un ruolo esclusivo. Ovunque i gradi di giudizio sono almeno due, in Italia addirittura tre. Poi possono variare le giurisdizioni, se mi ha dato torto un tribunale, posso ricorrere ad un altro. La decisione del giudice non è oggettiva, o comunque in democrazia ci si cautela contro i giudici ammettendo in principio che il loro giudizio possa essere in prima istanza sbagliato e garantendo l’avvocatura contro di essi.
Veniamo così alla terza questione. Il diritto è interpretazione, vale a dire che spetta al giudice stabilire se una determinata condotta di un determinato soggetto costituisca un reato. Se si trattasse di applicare meccanicamente norme, collegandole a fatti sociali, non ci sarebbe bisogno del giudice, basterebbe una macchina o un algoritmo (so benissimo che questo sta accadendo oggi, o rischia di accadere, per via dell’introduzione delle cosiddette ‘intelligenze artificiali’ per trattare questioni giudiziali, ma tralascio ora questo problema). Anche il giudizio dei giudici supremi è quindi soggettivo, in quanto avanza una interpretazione, è dunque un giudizio politico. Così può non parerci, giacché siamo portati a credere che quel giudice difenda oggettivamente diritti fondamentali scritti in una carta o Costituzione, ma quando quel giudice deve stabilire soggettivamente se una decisione politica leda o meno uno di quei diritti fondamentali compie un fatto politico, cioè avanza un’interpretazione.
Cosa c’entrano con tutto questo Netanyahu e Orbán? Moltissimo secondo me, perché le loro ‘riprovevoli’ iniziative sono altrettanti tentativi – da sempre esistiti nella storia del costituzionalismo e delle istituzioni politiche – di difendere l’autonomia del politico e della decisione dall’ingerenza del potere giudiziale. Possono non piacerci nella fattispecie le decisioni che si tenta di difendere (una certa gestione della questione arabo-israeliana nel caso di Netanyahu, una certa visione della società nel caso di Orbán), ma se autonomia e legittimità del politico sono negate o contestate il rischio è di consegnare la democrazia ai giudici-filosofi, dunque a un potere irresponsabile. Il potere politico in democrazia deve invece rispondere periodicamente di ciò che fa, sottoponendosi alla competizione elettorale.
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Dino Cofrancesco dice
Trenta e lode!