Se un ingenuo chiedesse lumi sull’intricata e tragica vicenda israelo-palestinese, qualcuno gli direbbe che dopo la Seconda Guerra Mondiale ci fu nel 1947 una risoluzione ONU per la creazione dello stato di Israele nei territori della Palestina, ma che gli ‘arabi circostanti’ disgraziatamente non hanno mai accettato. La questione, va detto, inizialmente era prevalentemente territoriale-nazionale e solo con il passare del tempo il conflitto nazionalistico (tra israeliani e palestinesi) è diventato anche un confitto etnico-religioso (tra ebrei e musulmani). Secondo dati UN e UNRWA, nel 1945 nella British Palestine il 60% della popolazione era musulmana, il 31% ebrea, 8% cristiana. A un certo punto, si comincia a pensare a costruire due Stati, uno per gli ebrei (Israele) e uno per i musulmani (Palestina).
Si dice un altro Stato che si potrebbe fare (oltre che nella Striscia di Gaza) in Cis-Giordania. A che ciò fosse fattibile, dovremmo immaginare un Primo Ministro israeliano dello stampo di Menahem Begin che ordini la rimozione forzata di tutti gli insediamenti israeliani dalla Cis-Giordania, come infatti questi fece all’indomani degli accordi di Camp David (1979) con i primi insediamenti di coloni ebrei nel Sinai occupato. Se questo fosse possibile, affiancare allo Stato ebraico lo Stato palestinese significherebbe avere – come già oggi in realtà – due comunità etnico-confessionali integrali che si fronteggiano. Ma non si può escludere che i due popoli si farebbero ancora più guerra, ora una guerra tra Stati.
Prima ancora di provare a vaticinare una soluzione, bisogna fare i conti con le spiegazioni storiciste che entrambe le parti avanzano per giustificare i loro ‘diritti’. Chi c’era prima in Palestina, gli ebrei o i musulmani? Perché, se una delle comunità – o, va detto, una qualche sua ‘antecedente’ – era là prima, in base all’argomento storicista avrebbe una ragione a restarci e dunque un ‘diritto’ su quella terra. Se non ché, ogni spiegazione che ricorra a una catena causale temporale, secondo il presupposto che ciò che viene prima spiega o giustifica ciò che viene dopo, si trova al cospetto del problema della selezione dei ‘fatti’ che si mettono in sequenza. Quali fatti? E perché proprio quei fatti e non altri?
Per cogliere le implicazioni di questo problema occorre spostarsi per analogia sul piano logico-formale e matematico, e accettare che una serie di fatti o eventi possa essere ricondotta a una serie numerica matematica (es.: ……-3, -2, – 1, 0, 1, 2, 3…). Ogni serie numerica ha infatti un punto iniziale e uno finale, arbitrariamente fissati da chi conta. I ‘limiti’ di ogni serie data, quando iniziamo a contare/raccontare e quando finiamo, anche nella Storia spesso, coscientemente o meno, sono completamente arbitrari, si selezionano fatti/eventi piacevoli o favorevoli e si limita la selezione a un periodo o estensione di tempo conveniente.
Se la Storia non può concludere molto sul ‘prima e dopo’, se non con selezioni arbitrarie o teoricamente e concettualmente orientate di fatti ed eventi (come già argomentava E.H. Carr nelle sue magistrali Sei lezioni sulla Storia), qualsiasi soluzione posta dal ‘diritto internazionale’ si rivela anch’essa nella sua arbitrarietà. Mi riferisco a quelle cose denominate ‘diritto dei popoli’, o anche ‘diritto all’autodeterminazione dei popoli’, che sarebbero addirittura trascendenti la Storia. Sia chiaro, popoli e nazioni non esistono, sono solo artifici della mente, per la verità importantissimi perché danno vita alle dottrine nazionalistiche e al senso di comunità, come spiega bene F. Goio nei suoi Saggi sulla Nazione, ma per amore di discussione facciamo ora finta che esistano come ‘cose’. Dobbiamo allora osservare che ogni diritto presuppone una relazione. Se si fosse soli al mondo o nell’universo, non ci sarebbe bisogno di alcuna legge e di alcun diritto, perché non ci sarebbe alcun rapporto da ‘normare’ o regolare. Non si può rivendicare un diritto su qualcosa, se non esiste un ‘altro’ nei confronti del quale si voglia far valere quel diritto. In questo modo, ovviamente, il diritto diventa ‘positivo’ e questa è una prospettiva spesso respinta.
Un modo per aggirare il carattere positivo della legge è supporre – come fanno il giusnaturalismo e anche le dottrine teologiche in generale – che la legge sia stabilita da Dio e che tutti i rapporti siano stati determinati da Dio. Quindi il ‘mio diritto’ vale perché ‘il mio Dio’ me lo ha concesso e perché io sono il ‘figlio di Dio’ e il mio popolo è il ‘popolo di Dio’. Questo va bene, tranne per il fatto che non solo gli ebrei dicono di essere il popolo di Dio, ma anche i musulmani, i cristiani, forse i buddisti, i confuciani e anche altri. Possiamo quindi avanzare un diritto (alla terra, alla proprietà, all’espressione della lingua, della cultura, della religione) proprio perché ‘l’altro’ è con noi. Se l’altro non ci fosse il problema non si porrebbe. Ma ‘l’altro’ c’è, purtroppo – o forse no.
Come si può allora pensare di risolvere il problema del rapporto tra ‘uno’ (il popolo di Israele) e ‘l’altro’ (il popolo non israeliano) che stanno entrambi su uno stesso territorio? Abbiamo qualche suggerimento che differisca da quella che è la pratica attuale, vale a dire la macellazione reciproca?
Certo si può ricorrere all’Utopia, come faccio anch’io nell’allusione kantiana del titolo a questo breve scritto. Osservando quanto è accaduto nella Storia (sì, nella Storia), come nel caso europeo della carneficina prolungata tra cattolici e protestanti dopo la Riforma, non vedo altra soluzione se non – come è avvenuto in Europa – la convivenza fianco a fianco, ‘l’uno’ e ‘l’altro’. Riportare il diritto nel suo alveo ‘positivo’ e dunque riconoscere l’altro e la relazione con l’altro, accettare che questo diritto sia garantito da un Terzo agente ‘mondano’, non da Dio. Voglio dire che un possibile, ancorché utopico, ‘accomodamento’ del problema israelo-palestinese potrebbe risultare se si tornasse alla situazione precedente la risoluzione dell’ONU del 1947: in Palestina, uno (e uno solo) Stato con due popoli-etnie (palestinesi-ebrei e palestinesi-musulmani) che vivono al suo interno e sotto la sua giurisdizione, con le loro tensioni, le loro incomprensioni, ma costretti a viverle. Le due comunità continuerebbero ancora ad azzannarsi tra loro, chissà per quanto ma forse in modo più episodico e meno virulento con lo scorrere del tempo.
Non voglio dire che questa sia ora una soluzione praticabile, si tratta di un’utopia kantiana, nel senso che s’immagina che uno Stato sovranazionale governi sopra due diverse comunità. Non vivremo abbastanza a lungo – temo – per vederla anche solo vaticinata da qualcuno. Ma non riesco a immaginare altra soluzione che possa offrire a quei due popoli qualche speranza di pace.
Hamid Al Bouchouari dice
Caro Professore,
Grazie per questa interessatissima contribuzione, specie il suo riferimento all’utopia Kantiana di pace perpetua. Pertanto vorrei aggiungere che tale soluzione possa essere possibile si entrambi le parti siano smilitarizzate. D’altronde è questa l’idea di Kant. Tuttavia allo stato attuale, direi che la soluzione Kantiana è impossibile in questo caso (Infatti, Lei ha sottolineato il suo carattere utopico) , dato che l’ideologia sionista non riconosce il diritto dell’altro e pretende un territorio che si estende dal Nilo fino all’Eufrate. Infatti, i vari trattati di pace per loro sono solo tregue di lungo termine alla Kantiana per prendere il fiato e poter continuare la battaglia e raggiungere l’obiettivo finale, e questo è stato dimostrato da come sono andati le cose dopo gli accordi di Oslo, che gli Israeliani hanno usato per neutralizzare l’intifada in cambio di una promessa di uno Stato Palestinese mai realizzato e mai riconosciuto.
Cordiali saluti
Hamid
Giuseppe IERACI dice
Caro Hamid Al Bouchouari,
Grazie per il commento, che mostra di aver colto bene il senso del mio intervento.
Temo però che – cito – alla “ideologia sionista [che] non riconosce il diritto dell’altro e pretende un territorio che si estende dal Nilo fino all’Eufrate” corrisponda una “ideologia islamica” (la definisco così, genericamente e impressionisticamente) che mira alla “cancellazione di Israele”. Siamo, purtroppo, punto a capo.
Jacopo Frattini dice
Caro professore,
Se posso aggiungere un umile contributo alla sua analisi, un altro criterio di legittimazione nell’ambito del MENA è quello della decolonizzazione, ovvero di chi è stato in grado di liberarsi. Dai miei studi la decolonizzazione è avvenuta tramite una collaborazione di entrambi i gruppi rendendo entrambi gli stati legittimi – però ovviamente questo ricadrebbe nuovamente in quella aleatorietà nella legittimazione storica che sopra citava-.
Riguardo alla convivenza di due gruppi così grandi in uno stato bi etnico la vedo in maniera più negativa. Alcuni studi mostrano come la convivenza tra gruppi sia possibile nel momento in cui sono in un contesto multietnico con gruppi etnici di piccole dimensioni (vedesi caso dei Chewas e Tumbukas che in Malawi sono avversari, mentre in Zambia collaborano e si sentono uniti data la loro minore dimensione nel contesto generale). Magari adottando un sistema elettorale, simile a quello del Libano, nella quale ci sono quote fisse e rigide per ciascun gruppo etnico all’interno di un Parlamento comune, ci potrebbe essere un equilibrio tra rappresentatività(parziale) e stabilità, entrambi elementi essenziali in un processo di democratizzazione. Ovviamente è una soluzione che sta più sul piano teorico che pratico al momento, magari tra una decina di anni almeno sarà fattibile.
Un saluto,
Jacopo
P.S.: Si potrebbero anche citare tutte le difficoltà nel riuscire a controllare gruppi sovversivi in un contesto desertico ma la situazione è già abbastanza complessa.
Giuseppe IERACI dice
Caro Frattini, grazie.
Io però non ponevo un problema di “fattibilità”, rispetto alla quale le sue riserve sono più che condivisibili. La mia prospettiva è quella della “razionalità” (o semplicemente della “ragione”), ma in politica – so bene – ciò che è razionale è raramente (per non dire mai) fattibile. Con questo – ora non mi fraintenda -non voglio minimamente dire che la politica è il regno dell’irrazionalità, piuttosto che in politica gli interessi che s’incontrano e si scontrano sono spesso irriconciliabili.
Hamid Al Bouchouari dice
Caro Jacopo,
Mi permette di contestare il tuo punto di vista sulla decolonizzazione di quel territorio dagli inglesi. La presenza israeliana nella Palestina è resa possibile grazie al colonialismo inglese (vedi la promessa di Balfour), quindi è un po’ fuori luogo dire che gli Israeliani si sono decolonizzati dagli Inglese.
Riguardo la possibilità di convivenza tra i due gruppi etnici, sono pienamente d’accordo con te dato che l’ideologia sionista rifiuta l’idea della presenza di un altro popolo nella terra promessa da Dio (o più precisamente da Balfour).
Anna Longhini dice
Caro Giuseppe,
Si può dibattere se la storia, o altre singole discipline*, possano o meno offrire soluzioni salvifiche a conflitti e crisi.
Tuttavia, nel caso specifico andare davvero a fondo obbligherebbe noi europei a fare i conti con le conseguenze del ‘nostro’ colonialismo. Per questo partirei dalla Prima Guerra Mondiale e dall’accordo segreto di Sykes-Picot (reso ufficiale solo nel 20 con la conferenza di Sanremo) – e dalla Dichiarazione Balfour! – con cui inglesi e francesi si sono spartiti mezzo Medio-Oriente, alla faccia di qualunque autodeterminazione dei popoli arabi e dell’area.
Anche per questo ho una certezza mentre vedo Blinken volare nell’area per la quinta volta: una soluzione difficilmente potrà arrivare dall’ “Occidente”, che si finge terza parte, tanto meno dagli Stati Uniti. Li siamo da sempre una garanzia di conflitto più che di pace.
Con stima,
Anna
*Sorvolo sulle barriere create ad arte tra discipline nell’accademia italiana ed non solo, sorvolo sull’espulsione della storia soprattutto recente dalla Scienza Politica ma anche dal pensiero economico, sordovolo sul chiamare ‘Area Studies’ ciò che é extra-europeo, ecc. Perdona la mia radicalità.
Giuseppe IERACI dice
Concordo che gli assetti stabiliti da franco-inglesi in quell’ area dopo la llGM siano all’origine del problema, mi pare implicito nel mio attacco.
Quanto alla storia o ad altre discipline, non intendevo minimamente chiamarle in cause. La mia critica allo “storicismo” sui generis di chi “usa” la storia per giustificare opzioni politico-ideologiche era sono di natura logico-filosofica.
Marco Tarchi dice
Per capire quel che sta accadendo in terra palestinese, da una parte e dall’altra, serve molto di più Aristotele, con la sua categoria dello Zoon politikon, delle utopie kantiane. Chi pensa che popoli e nazioni siano solo artifici della mente, sia pur “importantissimi”, e non realtà viventi ed operanti, da sempre ed ovunque, sulla scia thatcheriana del “la società non esiste, esistono solo gli individui”, pecca di irrealismo. E le ipotiche soluzione che questo modo di pensare partorisce non producono altro che danni. Non molto diversi da quelli causati dalle esasperazioni nazionalistiche, che spesso ne sono il frutto paradossale,
Giuseppe Ieraci dice
Caro Marco, sì, confermo non credo che popoli e nazioni siano <>. Sono soltanto stati della mente, identificazioni etico-politiche fondamentali e importantissime, questo sì. Ma non mi spingo verso alcuna concezione “organicistica” della nazione e del popolo.
In quano non sono realtà viventi, ma stati della mente, queste stati della mente si possono modellare, creare. Così come hanno fatto alla “mia e tua” mente nel corso dei decenni per farci sentire “entrambi Italiani”. Ci poteva capitare di “sentirci” qualsiasi altra cosa.
Queste considcrazioni credo si possano anche applicare ad altre “comunità di destino” ora divise, ma che potrebbero un giorno, se non vivere insieme, comunque “ignorarsi” – non dico tollerarsi- reciprocamente. Perché deve essere impossibile pensare ad un ebreo che “ignora” (“tollera” ?) il suo vicino di casa arabo-palestinese e viceversa? Gli stati nazionali e prima gli imperi hanno fatto questo per secoli.
Due Stati e due Nazioni in Palestina – a parte che dove li fai? – significa guerra perenne tra due comunità avverse l’una a l’altra, cioè individui condizionate nei loro “stati della mente” a percepirsi “amico-nemico”.
Giuseppe Ieraci dice
E’ saltato un pezzo del mio commento. Avevo scritto, citandoti:
Caro Marco, sì, confermo non credo che popoli e nazioni siano “realtà viventi ed operanti”…
Dino Cofrancesco dice
Acuto e brillante come sempre, il post di Giuseppe Ieraci. E tuttavia il docente triestino—tra i pochi scienziati politici che mi sento di stimare–sembra non tener conto del fatto che una società civile pluralistica—sotto il profilo etnico, religioso, linguistico, culturale—può sopravvivere solo se, sul piano politico, è caratterizzata da un credo comune, dall’orgoglio dell’appartenenza, dalla lealtà nei confronti delle istituzioni. Mario Stoppino—che fu Maestro sia a Ieraci che a me—ci ricordava l’alzabandiera delle scuole americane e gli alunni delle varie confessioni religiose che si rivolgevano ciascun gruppo al proprio Dio invocando la benedizione sugli Stati Uniti. Il dramma dell’America contemporanea è la radicale politicizzazione delle etnie, che non si riconoscono più in un progetto comune e si raccontano storie diverse e lasciti di odio inestinguibili. Non credo nella rinascita dello stato nazionale—specie in Italia—ma non posso non rilevare quale terribile collante ideale sia venuto meno con la sua scomparsa. Nel libro ‘Per un liberalismo comunitario’(ed. La Vela) come in altri scritti in preparazione ho cercato di motivare la mia tesi ma resto scettico sull’audience…
Giuseppe Ieraci dice
Carissimo Dino,
Sono d’accordo con quello che dici, non credo che le mie considerazioni siano negatrici – ti cito – del fatto che:
“una società civile pluralistica—sotto il profilo etnico, religioso, linguistico, culturale—può sopravvivere solo se, sul piano politico, è caratterizzata da un credo comune, dall’orgoglio dell’appartenenza, dalla lealtà nei confronti delle istituzioni.”
Concordo totalmente con questo.
Ho già sopra risposto a Marco Tarchi: se come “realtà viventi” popoli e nazioni sono qualcosa, sono proprio “orgoglio dell’appartenenza” e “lealtà nei confronti delle istituzioni”.
Allora, ribadisco che è solo un’utopia razionalistica e illuministica: ma cosa m’impedisce di pensare che un “individuo” che legge e segue la Torah e un altro individuo che invece legge e segue il Corano non possano sviluppare un qualche comune “orgoglio di appartenenza” e una qualche comune “lealtà nei confronti delle istituzioni”?
Se invece voi preferite “realtà viventi” di comunità d’individui che si scannano, beh accomodatevi ad ammirare il vostro film splatter. Io vorrei guardare un altro film.
Michele Magno dice
Gli arabi costituiscono circa il 20% degli oltre 9 milioni di abitanti di Israele. Sono in prevalentemente musulmani, poi cristiani e drusi. Gli arabi israeliani, pur con problemi e difficoltà, godono delle stesse libertà degli ebre e, come nelle altre democrazie occidentali, possono votare ed essere eletti, possedere aziende, lavorare, esprimersi e praticare ovunque la propria religione liberamente.
Accadrebbe lo stesso in uno Stato palestinese? Per questo mi sembra interessante, per quanto oggi ancora lontana, la prospettiva indicata nell’articolo. Michele Magno
FLAVIO RURALE dice
Dobbiamo essere cauti, evitando di dare per scontato e vero quanto i tg ci propinano: leggo da sole24ore del 3 dicembre 2023, intervista di Giampaolo Musumeci allo storico israeliano Avner Wishnitzer:
Musumeci (a proposito di A. W.): “professore di storia, ex veterano di una delle unità d’élite dell’esercito israeliano, catturato dagli stessi soldati israeliani mentre tentava di consegnare e distribuire acqua a un villaggio palestinese … lei, così Musumeci a A. W., ha definito la situazione dei palestinesi nei territori occupati qualcosa di simile all’apartheid…”
A. W.: “è molto simile all’apartheid, nel senso che ai palestinesi vengono sistematicamente negati i diritti politici e civili. Vengono discriminati in ogni aspetto della loro vita quotidiana”.
Sempre dal Sole24ore, 5 novembre 2023, articolo di Roberto Bongiorni:
“Essere arabi oggi in Israele significa subire pesanti discriminazioni, a volte persino vessazioni, significa vivere nella paura … gli arabi israeliani oggi sono 2,1 milioni, oltre il 20% degli abitanti di Israele … si sono sempre sentiti cittadini di serie B, Gli episodi di intolleranza verso gli arabi israeliani proliferano dappertutto…”.
Leggete il resto dell’articolo per comprendere la retorica dello stato democratico e di diritto …: “Ebrei israeliani e arabi israeliani. La Costituzione è chiara. Hanno gli stessi diritti. In teoria.” Ancora maggiori gli abusi nella sanità: eppure lì, in quella collaborazione di medici palestinesi ed ebrei, i grandi intellettuali israeliani, come Amos Oz, avevano intravisto la possibilità di uscire dalla tragedia: la collaborazione, la reciproca tolleranza, non due Stati ma due popoli nello stesso Stato. Certo, ormai, non a breve …
flavio rurale