[Editoriale di «Paradoxa» 2/2025, “Religione e infosfera. Relazioni pericolose”, a cura di Mario Morcellini e Adriano Fabris]
«Chi potrebbe non fremere pensando alle infelicità che può causare una sola relazione pericolosa! E quante pene si potrebbero evitare riflettendoci prima? […] Ma queste riflessioni tardive arrivano sempre dopo il fatto».
All’amara verità di queste parole di Madame de Volanges, su cui si conclude il capolavoro di Choderlos de Laclos, non sfuggono i contributi qui raccolti, che, nel raccontare, anch’essi, una storia di seduzione, arrivano solo après coup, visto che la liaison tra religione e infosfera è ormai un fatto. Forse però qualche «pena» si può ancora evitare se è vero che questo fatto non è compiuto, ma in fieri; e soprattutto se si riesce a mettere a fuoco tempestivamente dove si annidi il suo carattere potenzialmente dangereux. Che un pericolo vi sia, infatti, è fuori discussione.
Del polo a rischio di questa relazione, la ‘religione’, si preferisce qui non tentare una definizione univoca: il termine viene nebulizzato in una serie (aperta) di parole chiave, che perimetrano un campo piuttosto che un oggetto, e ci si concentra, operativamente, sul fenomeno, specifico ma macroscopico, del cattolicesimo. L’altro polo, quello pericoloso, viene considerato invece in due sensi e a due livelli diversi.
Il primo è quello della comunicazione nel senso più tradizionale del termine. Sotto questo profilo, la relazione pericolosa è di lunga data. La storia della compromissione della religione con i mass media comincia almeno con il kerigma – l’imperativo di un annuncio urbi et orbi – e viene qui ricostruita da punti di vista diversi, in modo tale da far affiorare via via il paradosso specifico del nostro tempo: alla presenza innegabile, in qualche caso persino dilagante, della religione nello spazio comune della comunicazione, l’essenziale del ‘religioso’ resta non detto. E non per motivi contingenti. Quella che i curatori definiscono, à la Orwell, «neolingua» è strutturalmente allergica ad alcune istanze, questioni, parole che pretendono di esibire quel che la modernità impone invece di confinare pudicamente nel privato: mistero, vita eterna, totalmente altro, verità, dovere (piuttosto che ‘diritti’) e, ovviamente e soprattutto, Dio restano sistematicamente fuori scena (Ognibene, Presilla). Nessuna contestazione esplicita: semplicemente, con quella «obliterazione dolce» che è la fisionomia contemporanea della secolarizzazione (Morcellini), quando si trova in presenza del fatto religioso, anche in quei casi in cui esso fa notizia, la comunicazione dirotta l’attenzione su altro, come il gabbiano appollaiato sul comignolo della Sistina o il menu dei pasti consumati in conclave. Si attiva così una correlazione di reciproco rinforzo con gli atteggiamenti e i convincimenti di una società che mette in opera esattamente la stessa strategia di dirottamento, allontanandosi, dolcemente e progressivamente, dal cattolicesimo (Pessato, Dragotto). Da tempo la Chiesa è più che consapevole di questa situazione e ha adottato strumenti e modi di vario tipo per gestirla (Corrado, Baturi) e per ‘trasgredirne’ dall’interno la logica e le derive (Menon).
A questo primo risvolto pericoloso della liaison se ne intreccia oggi un secondo, assai meno tradizionale, che emerge nel momento in cui si considera quella iperbolizzazione contemporanea della comunicazione che viene definita infosfera. Qui non si tratta più solo di rendersi conto del fatto che il mezzo è il messaggio, ossia che non è possibile operare una distinzione netta tra il senso che si intende trasmettere e il canale comunicativo nel quale lo si veicola: si tratta di prendere fino in fondo coscienza del fatto che nel medium ci muoviamo, esistiamo, respiriamo, abitiamo – l’infosfera, appunto – e che con esso interagiamo al punto tale che è sempre meno mezzo di trasmissioni di informazioni e sempre più interlocutore, emittente a sua volta di messaggi in prima ‘persona’ – una persona dotata a modo suo di ‘intelligenza’ – che contribuiscono a ridefinire e rimodellare la nostra stessa identità, come accade in qualsiasi interlocuzione. Questa situazione, che evidentemente impatta su tutte le dimensioni dell’esistenza, individuale e sociale, assume connotati del tutto specifici nel caso della ‘religione’ e configura pericoli inediti (Fabris, Costa, Camorrino). Uno, in particolare, appare particolarmente insidioso, presentandosi come una variante inedita di quel processo di sostituzione in cui la secolarizzazione consiste.
Intervenendo al G7 nel giugno 2024, Papa Francesco ha definito l’intelligenza artificiale «uno strumento affascinante e tremendo»: definizione che fa sobbalzare, perché è esattamente quella che Rudolf Otto dà del «sacro», fascinosum ac tremendum. Non è chiaro quanto sia intenzionale, ma in ogni caso è significativa questa evocazione di una commistione tra IA e sacralità. Il punto è che nell’abitare l’infosfera, la religione rischia di lasciarsene sedurre al punto di consegnare a quest’ultima la propria identità: rischia cioè di vedere nella smaterializzazione digitale, nella liberazione dal peso del mondo, della carne e della materia, la propria stessa promessa di salvezza, ma fraintesa e irrimediabilmente sfigurata, perché ridotta a immagine e somiglianza dell’uomo (Fabris). La tentazione gnostica ha sempre accompagnato come un’ombra il cristianesimo, ma l’infosfera la rilancia offrendosi come volto tangibile (si fa per dire) di una terra promessa confortante e a misura tutta umana.
Secondo un’etimologia probabilmente sbagliata, ma profondamente radicata e dunque comunque significativa, il termine ‘religione’ proviene dal latino religare e vuol dire fondamentalmente ‘legame’ ossia liaison: il cui vero pericolo è che diventi autoreferenziale e leghi ciascuno solo a sé stesso.
Sergio Belardinelli dice
Grazie Laura. Un Editoriale che invoglia a leggere tutto il fascicolo.
Buona estate,
Sergio Belardinelli