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L’accidia e l’ira ai tempi del coronavirus

9 Luglio 2020 di Michele Magno Lascia un commento

Primum vivere deinde philosophari: questo è ancora il tempo della responsabilità e della disciplina (anche intellettuale), non delle polemiche dettate da meschini calcoli elettorali. Vero, ma fino a quando può durare?

La popolarità del presidente del Consiglio è ancora discreta ancorché in declino, perché in un passaggio così drammatico della vita nazionale i cittadini hanno bisogno di avere fiducia nella figura istituzionalmente preposta alla soluzione dei loro problemi. Ma i cittadini non hanno firmato una cambiale in bianco. Chi produce e lavora è in ginocchio, mentre la mestizia quotidiana dei decessi e dei contagiati ha messo a dura prova la pazienza degli italiani.

Nonostante i dati confortanti degli ultimi giorni, che qualcosa non abbia funzionato nelle strategie di contenimento dell’epidemia è innegabile. Lo testimonia la proliferazione di task force e commissari incaricati di programmare il futuro, in un presente in cui un tampone o una mascherina sono ancora il privilegio di una minoranza; e con alle spalle un passato in cui il personale sanitario, pagando un prezzo altissimo alla propria generosità e abnegazione, è stato mandato allo sbaraglio negli ospedali come i fanti del generale Cadorna contro i reticolati austriaci durante la prima guerra mondiale. Inoltre, resta da spiegare l’anomalia lombarda con argomenti più precisi e più convincenti, invece di puntare il dito sulle abitudini festaiole e peripatetiche di famiglie e runner.

Altri governi europei non hanno brillato per capacità di execution e hanno colpevolmente sottovalutato la potenza geometrica del coronavirus, ma il nostro vi ha aggiunto un sovrappiù di confusione grazie a una straripante frenesia comunicativa. Se il lockdown tardasse nella seconda fase a dare i risultati attesi, la speranza di molti potrebbe degenerare nell’accidia, ossia in una sorta di depressione, di stanca indifferenza per le sorti della comunità di cui facciamo parte; o, perfino, nell’ira e nella rivolta cieca contro chi verrà considerato l’untore di turno.

Due peccati capitali che Kant definiva un «cancro della ragione», un attacco – subdolo o frontale – all’unica facoltà che può metterci al riparo dalla deriva di passioni incontrollabili. Le passioni, ovviamente, non sono tutte maligne (come vuole una certa tradizione cristiana di origine paolina): quel che conta è la loro direzione. E, nella città terrena, è (o dovrebbe essere) il potere politico l’auriga della biga alata del Fedro platonico, in cui il cavallo bianco raffigura quelle che obbediscono spontaneamente alla voce della ragione, mentre il cavallo nero è costretto con il morso a seguire, suo malgrado, i comandi.

Ebbene, se è concessa l’impertinenza, il nostro premier più che un auriga sembra il vetturino di un calesse scalcinato, che a Bruxelles cerca di spacciare i suoi ronzini per cavalli purosangue. Fuor di metafora, ha ingaggiato un duello sugli eurobond non disponendo del prestigio e della forza contrattuale che occorrono in questi casi. E, puntualmente, è stato costretto a una ritirata che però difficilmente cancellerà i danni prodotti dal bizantinismo di una linea che pretendeva la solidarietà europea agitando l’arma del sovranismo.

Ben più mansueto il partito di maggioranza relativa il Parlamento si è mostrato nei confronti della Cina. Una docilità talvolta sconfinata nell’ammirazione servile per i suoi successi nella lotta contro il coronavirus. Premesso che sulla veridicità dei dati forniti da un regime autoritario il sospetto è d’obbligo, Xi Jinping adesso vuole passare alla storia come il salvatore dell’umanità dopo averla appestata con le sue omissioni e i suoi ritardi. Quando la pandemia sarà sconfitta, qualsiasi analisi non consolatoria sul futuro dell’Occidente dovrà partire da qui, ossia dal fatto che una globalizzazione sregolata rischia di dare a una dittatura dispotica le chiavi del mondo.

Un mondo in cui la democrazia liberale è ancora sconosciuta in gran parte del continente asiatico e di quello africano, ed è rifiutata da quei paesi islamici dove politica e religione, temporale e spirituale, sono tutt’uno. Un mondo, inoltre, in cui l’America First di Donald Trump sta scassando il sistema delle relazioni internazionali, incoraggiando populismi e nazionalismi.

Ha scritto Norberto Bobbio che la democrazia ha la domanda facile e la risposta difficile; l’autocrazia, al contrario, è in grado di rendere la domanda più difficile e più semplice la risposta. Aggiungeva che, per essere più forte, la democrazia ha bisogno del più largo possibile rapporto di fiducia tra governanti e governati; e quindi di bandire le pratiche della simulazione, dell’inganno, della menzogna, della frode.

Chissà, passata la tempesta forse anche noi ci convinceremo finalmente che non sono più rinviabili quelle riforme – istituzionali, economiche e sociali – necessarie a fare dell’Italia una democrazia più matura. Ne dubito, ma mai dire mai.

coronavirus

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