Alcuni giorni fa l’Institut Montaigne ha pubblicato un articolo di Baudouin de Hemptinne che critica il diffuso approccio interpretativo sulla seconda presidenza Trump, giudicata da numerosi osservatori ‘caotica’ o, nella migliore delle ipotesi, ‘transazionale’.
Questa valutazione, secondo l’autore, poteva essere considerata accettabile per quanto riguarda il primo mandato trumpiano: imprevedibile, confuso, spesso contraddittorio, sottoposto a repentini cambi di linea che apparivano a volte determinati da improvvisi sbalzi umorali.
Nulla di tutto ciò nel secondo mandato, che starebbe invece dando luogo ad un vero e proprio regime change con un attacco a quelli che sono considerati i valori fondanti delle democrazie occidentali: la rule of law, il rispetto della persona e della dignità umana, i diritti di libertà, il pluralismo, l’equilibrio tra i poteri e così via: una nuova versione del darwinismo sociale che tanti danni ha prodotto nel secolo passato. E che anche nella ricostruzione che ne fa Francis Fukuyama non è un procedere improvvisato e confuso ma ha come obiettivo, tra gli altri, quello di distruggere il deep state, visto come principale ostacolo ai suoi fini: «non è caos, anche se può essere così percepito da quelli che ne sono vittima». Si tratterebbe infatti della voluta attuazione del programma della Heritage Foundation, Project 2025, elaborato negli ultimi anni con il contributo di oltre cento organizzazioni del movimento conservatore, con il dichiarato obiettivo appunto di «take down the deep State», abbattere lo Stato profondo.
Il progetto si rifà alla discussa teoria dell’unitary executive, che vuole una decisa espansione dei poteri del Presidente fondata su una lettura radicale della prima sezione dell’articolo 2 della Costituzione americana e che ha trovato anche di recente conforto in alcune decisioni della Corte Suprema. In questa visione ‘unitaria’ spetta al Presidente il controllo pieno di tutti i Dipartimenti, delle Agenzie per la sicurezza e di diversi enti federali, con il fine di realizzare i progetti caratterizzanti oggi l’esecutivo: contrasto deciso all’immigrazione, misure antiwoke, restringimento delle politiche sociali, attacco alle burocrazie federali e statali, nuovo indirizzo tariffario e commerciale anche verso i paesi alleati, difesa prioritaria degli interessi economici e finanziari americani, riequilibrio delle relazioni internazionali, ampliamento territoriale e così via.
De Hemptinne vede oggi due filoni nel movimento MAGA, a volte in competizione tra di loro, che si confrontano nell’attuazione del Project 2025: da una parte quello degli intellettuali postliberali come J.D. Vance, Marco Rubio e Ron De Santis; dall’altra i tecno-capitalisti libertari Elon Musk e Steve Bannon, accompagnati da Peter Thiele, Marc Andreessen, Eric Schmidt ed oggi anche da Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e tanti altri.
I primi vedono nel liberalismo la ragione del decadimento morale dell’Occidente, della distruzione delle tradizionali strutture sociali, a cominciare dalla famiglia, e del progressivo e deleterio crescente isolamento degli individui. La soluzione per essi è in una forma di ‘aristopopulismo’ che vuole saggi governanti puntare alla realizzazione del common good: e lo strumento per realizzare questo ‘bene comune’ è un esecutivo forte che prevalga su tutti gli altri organi, coadiuvato nella sua azione anche dalle chiese tradizionali: e qui va richiamata la recente conversione al cattolicesimo di J. D. Vance.
Quando Trump si autoelogia sui socials dicendo «lunga vita al Re», o Vance umilia Zelensky ricordando che «c’è un nuovo sceriffo in città», essi manifestano in maniera chiara la loro visione sul ruolo del nuovo soggetto che gestirà il potere.
I tecno-capitalisti fondono invece assieme il capitalismo radicale costruito su un mercato assolutamente libero, la fede in un processo tecnologico illimitato e una critica decisa alla legislazione regolatrice: con una governance autoritaria guidata da élite libertarie e visionarie, responsabili solo davanti a se stesse, capaci di gestire il governo come una grande Big Tech. È la posizione dei sostenitori del cosiddetto effective accelerationism (comunemente abbreviato in e/acc) di Andreessen ed Horowitz, che ritengono appunto che solo una crescita scientifica e tecnologica senza limiti e poco regolata, anche nel campo della ricerca e dell’uso dell’intelligenza artificiale, possa garantire sviluppo, benessere e sicurezza.
L’unione, per ora apparentemente non contraddittoria, di queste due dottrine si traduce poi in una politica internazionale che si muove tra isolazionismo ed espansionismo. Da una parte l’America First, con il «big, beautiful ocean» che ne difende i confini e rende superflue le tradizionali alleanze anche militari; dall’altra la politica espansionista su Groenlandia, Panama e Golfo del Messico.
Come conciliare queste due visioni, l’una isolazionista e l’altra espansionista? Secondo de Hemptinne in una prospettiva imperialista, dividendo il mondo in zone di influenza. Un nuovo Congresso di Berlino del 1878 o una nuova, fattuale Jalta che vede l’America dominare l’intero continente dalla Groenlandia a Capo Horn (una visione la cui paternità risale al discorso pronunciato davanti al Congresso americano da James Monroe il 2 dicembre 1823); la Russia estendere nuovamente la propria influenza sui vecchi stati del blocco orientale e sugli Stan centro asiatici; la Cina avere mano libera su Taiwan, sulle isole e sulle vie marittime che la contornano.
E l’Europa? Un vassallo imbelle e decadente degli USA, che non ha compreso che i principi democratici in cui crede sono il prodotto corrotto del liberalismo che ha finora seguito; e che le radici della sua crisi sono il frutto inevitabile di queste illusioni. Che sarà quindi costretta a pagare per la propria sicurezza militare, Ucraina compresa, e a contribuire al riequilibrio commerciale con gli USA: considerata oggi da questi ultimi, forse più che Russia e Cina, un avversario strategico da dominare.
È un’analisi di grande interesse che si conclude, per quanto riguarda l’Europa, con l’invito alla fermezza nel difendere i propri valori democratici senza però assumere un atteggiamento di ostracismo verso gli Stati Uniti. Un invito di non facile realizzazione che deve anche misurarsi, sempre in Europa, con Stati e movimenti che ai nostri valori e principi non sembrano oggi essere più molto interessati.
Ma l’analisi, assai pessimistica, di de Hemptinne può essere arricchita con alcune considerazioni ulteriori che potrebbero in parte modificarla.
In primo luogo va fatto riferimento al contesto politico ed istituzionale interno agli Stati Uniti. Ricordiamo innanzitutto che Donald Trump è stato eletto con meno del 50% dei voti, 49,8% contro il 48,3% della Harris. Un risultato che evidenzia un elettorato spaccato quasi a metà, nonostante il fatto che il cambio di candidatura democratico e la riconosciuta debolezza di Kamala Harris avrebbero dovuto maggiormente penalizzare il partito dell’asinello. Questa limitata differenza costringe in uno spazio di tempo limitato (oggi meno di due anni) la possibilità per Trump di realizzare i punti essenziali del suo programma e di consolidare la propria posizione prima delle elezioni di midterm: ricordiamo che al momento al Senato vi sono 53 repubblicani e 47 democratici; alla Camera dei Rappresentanti il confronto è tra 218 repubblicani e 213 democratici, con 4 seggi oggi vacanti (2 per ciascun partito).
Va poi considerata la possibilità che le due correnti che abbiano prima identificato nel progetto MAGA (i post liberali di Vance, Rubio e De Santis, e i tecno-capitalisti libertari alla Musk e Bannon) vedano accentuarsi i contrasti tra di loro e rendere più difficile la mediazione di Trump. Segnali in questo senso sembrano emergere in sede di attuazione delle prime iniziative prese dal DOGE (Department of Government Efficiency) su indicazione di Elon Musk, che si scontrano con le esigenze di Dipartimenti ed Agenzie controllati da persone più vicine al mainstream presidenziale. E con la reazione della magistratura, dei dipendenti pubblici colpiti dai licenziamenti e dei gruppi sociali privati di tradizionali benefici. Un caso esemplare è stato lo scontro, anche interno al governo, per i preannunciati, e in parte effettuati, tagli al Department of Veterans Affairs, una delle istituzioni più venerate negli Stati Uniti. Analoghe, negative reazioni ha suscitato la decisione di chiudere USAID, l’Agenzia che gestisce i programmi di aiuti internazionali, e di integrarla nel Dipartimento di Stato; e quella di intervenire in modo analogo sul Department of Education. Strutture, le ultime due, create dal Congresso e che secondo molti solo il Congresso potrebbe quindi sopprimere: ancora una volta il richiamato tentativo di espandere i poteri dell’esecutivo a scapito degli altri organi costituzionali.
Non c’è peraltro dubbio sulla necessità che un’azione di riforma dell’amministrazione fosse negli Stati Uniti da tempo necessaria: ricordiamo che già un altro presidente repubblicano, Ronald Reagan, istituì nel 1982 una commissione presieduta da un industriale del settore chimico, Peter Grace, per «drain the swamp», prosciugare la palude del settore pubblico. L’impegno di Grace era quello di risparmiare allora 424 mld di dollari: i risultati ottenuti furono di gran lunga inferiori alle attese. Questa volta tuttavia l’impressione è che piuttosto che al risparmio si punti, come appena detto, a mutare l’equilibrio tra gli organi. Il che ha provocato nelle scorse settimane la reazione di oltre 900 costituzionalisti e giuristi appartenenti a diverse università che hanno denunciato il cambiamento fattuale di norme e prassi costituzionali consolidate. La prospettiva sembra quindi essere al momento quella di un prolungato confronto giudiziario che non gioverà certamente né all’azione del governo, né all’interesse pubblico. E bisognerà vedere se in questo braccio di ferro tra i due indirizzi più volte richiamati vincerà il motto di Zuckerberg del 2014, break things and move fast, fatto proprio da Musk per il settore pubblico, o se gli interessi politici e locali riusciranno invece a prevalere.
A questo quadro ancora in via di consolidamento va poi aggiunto che la scelta di Trump di privilegiare per cariche importanti nel governo e negli apparati della sicurezza la fedeltà più che la competenza rischia di offuscare l’immagine di efficienza e capacità di risultato che l’amministrazione vuole offrire: il Goldberg Case relativo alla condivisione, su chat non completamente sicure come Signal, di informazioni sensibili anche a soggetti non appartenenti all’amministrazione e la facile raccolta di dati informativi sui vertici politici americani segnalata da Der Spiegel sono indici preoccupanti di trascuratezza, improvvisazione ed inefficienza.
Un discorso speculare nel valutare le prospettive o meno di successo del progetto trumpiano, non può naturalmente non tener conto anche dei Democratici, che dovrebbero provvedere alla sollecita definizione di un convincente programma ed alla identificazione di un candidato capace di sostenerlo, non limitandosi come oggi alla critica al governo ed alle sue iniziative. E sarà altresì necessaria da parte loro una riflessione non consolatoria sulle ragioni che hanno portato alla perdita di consensi sia tra l’elettorato blue collar che in minoranze etniche importanti, in conseguenza del prevalere per tanto tempo al loro interno di politiche, ad esempio sull’immigrazione e sui diritti, spesso in contrasto con la visione e gli interessi di questi settori: un processo di revisione che solo alcuni dirigenti come Gavin Newsom, il governatore della California, hanno fino ad oggi iniziato e che è però indispensabile per contrastare il consolidarsi della presidenza Trump.
Ma al di là del dato politico, occorre guardare ai meccanismi istituzionali americani ed alla loro storia per capire se essi sono ancora oggi sufficienti ad evitare derive autoritarie.
Negli ultimi mesi diversi commentatori hanno ricordato il romanzo distopico di Sinclair Lewis It can’t happen here (Qui non può accadere), pubblicato nel 1935 in pieno periodo nazifascista. È un romanzo che descrive l’ascesa di un politico populista alla Casa Bianca, Buzz Windrip, con un programma che prometteva riforme economiche e sociali profonde a difesa dell’«uomo comune», un ritorno al patriottismo e ai valori tradizionali, un rafforzamento deciso dell’esecutivo. E che finirà invece con la creazione di una milizia paramilitare, con campi di concentramento e con un apparato feroce di controllo e repressione. Secondo molti il riferimento era all’allora governatore della Louisiana Huey P. Long, un politico democratico populista che prometteva appunto radicali riforme anche grazie ad un ampliamento deciso dei poteri della Presidenza. Long verrà però assassinato con un colpo d’arma da fuoco mentre si accingeva a correre nella campagna per le elezioni presidenziali del 1936 (i ricorsi storici…). E non dimentichiamo che in quel periodo divennero in America popolari le posizioni filonaziste di personalità di grande rilievo come Henry Ford e Charles Lindbergh.
Il romanzo mette quindi in evidenza l’esistenza di un filone importante nella storia degli Stati Uniti, quello che esprime appunto spinte populiste, socialmente estremiste, pronte all’uso della violenza e isolazioniste in politica estera. Sotto quest’ultimo profilo va tenuto a mente come l’isolazionismo sia stato una costante della politica americana nell’800, trovando una giustificazione autorevole nelle parole di George Washington che nel 1796, nel suo discorso di commiato alla Presidenza, disse che «per noi la grande regola di condotta, nei confronti delle nazioni straniere, è che, nell’estendere le nostre relazioni commerciali, si abbiano con loro le minori relazioni politiche possibili». Dobbiamo poi anche ricordare che gli Stati Uniti entrarono nella prima guerra mondiale solo nel 1917; che, nonostante l’impulso ad una visione universalistica voluto da Woodrow Wilson, essi non parteciparono alla nascita della Società delle Nazioni; che furono l’ultimo tra i 17 paesi alleati ad entrare in guerra contro l’Asse, e questo solo nel dicembre del 1941 dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor. Dopo il 1945, con il sorgere ed il radicarsi della guerra fredda, aumenterà invece la proiezione internazionale americana con la guerra in Corea e con la creazione di numerose basi militari, specialmente in Europa e nell’area del Pacifico. Fino a giungere, a cavallo tra il XX ed il XXI secolo, dopo la guerra del Vietnam, al prolungato impegno bellico in Medio Oriente, in Afghanistan, in Somalia, in Libia, in Serbia. Vicende alla radice negli anni più recenti della reazione isolazionista espressa nella frase: «Come home, America!».
Tornando al più generale discorso sulle pulsioni non solo isolazioniste ma fortemente populiste, grettamente conservatrici, autoritarie ed antielitarie periodicamente emerse nel panorama politico americano, è però obbligo ricordare che, nonostante le preoccupazioni, le grida di allarme per la paventata perdita della libertà e gli appelli alla mobilitazione interna ed internazionale, il modello istituzionale americano è stato sempre capace di resistere e di reagire: e questo anche grazie al sistema di checks and balances voluto dai costituenti e perfezionato attraversando le decisioni e gli indirizzi della Corte Suprema.
La domanda che oggi ci si pone è quindi questa: riusciranno gli Stati Uniti ancora una volta ad uscire da questa spirale che, come più volte ricordato, mette insieme risentimento sociale, preoccupazioni economiche, crisi di valori culturali radicati, mancanza di fiducia in un progresso tecnologico che si ritiene incomprensibile ed incontrollabile, vittimismo e complottismo, patriottismo offuscato e paura dell’altro: persone, stati ed istituzioni che siano?
I soggetti in campo sono molteplici: le Corti; il Congresso nelle sue articolazioni legislative, di indirizzo, di controllo e giudiziarie; gli Stati con i loro poteri costituzionalmente riconosciuti; la stampa, pur con un ruolo diverso da quello dei decenni precedenti, grazie all’esplosione dei socials; le università e le istituzioni culturali e scientifiche, ancora però lacerate da conflitti ideologici profondi; i players finanziari ed economici, le aziende presenti nei mercati interni e in quelli globali; le Agenzie federali custodi di valori radicati nella storia americana, come quelli della concorrenza e del libero mercato; le Chiese, sia pure con le peculiarità di un universo religioso diverso da quello a noi vicino.
È un sistema articolato, con equilibri certamente instabili, reso oggi ancora più complesso (e quindi meno prevedibile) dall’entrata in campo di soggetti nuovi come le grandi società tecnologiche, le Big Tech, che godono di strumenti di potere scientifico e finanziario, e di capacità di condizionamento dell’opinione pubblica, impensabili fino a pochi anni fa. E che sono decisamente contrarie a qualsiasi controllo sull’enorme massa di ‘dati’ in loro possesso, capace di condizionare non solo l’azione dei governi ma la stessa informazione e quindi la formazione politica dei cittadini: assicurando quindi ad esse un ruolo sempre più invasivo e decisivo.
Una risposta non è al momento possibile, in quanto troppo poco tempo è passato dall’inizio della rivoluzione trumpiana e troppe sono le variabili ancora possibili.
Vogliamo piuttosto concludere tornando a quella che è, sul tema della politica ‘imperialista’ del nuovo corso trumpiano, l’opinione di de Hemptinne che, come ricordato, vedrebbe una spartizione del mondo tripartita tra Stati Uniti, Russia e Cina. Non vogliamo approfondire in questa sede una questione che chiederebbe ben più ampio spazio. Vogliamo però ricordare come la realizzazione di un simile progetto dovrebbe tener conto di alcuni elementi che qui ci limitiamo ad elencare: la crescente dipendenza economica e quindi politica della Russia dalla Cina; le difficoltà ancora non risolte della crisi finanziaria della stessa Cina; le reazioni di paesi come l’India, il Giappone e la Corea del Sud davanti a questa nuova Jalta; l’atteggiamento di membri importanti dei BRICS come Brasile e Sud Africa; l’irrisolto problema mediorientale e, quindi, il ruolo che paesi come Israele e l’Arabia Saudita potrebbero assumere in questo processo; la possibilità di una reazione europea che punti ad un radicale cambio di prospettiva rivedendo ad esempio i propri rapporti con la Cina. Potremmo continuare in questo complicato Risiko, aggiungendo anche quegli inattesi black swans che tante volte hanno cambiato la storia del mondo.
Quello che però ci preoccupa maggiormente è che tutto quanto sopra descritto sembra al momento confermare quello che tanti scrittori (e ricordiamo qui, tra quelli anglosassoni, Levitsky, Ziblatt, Acemoglu, Robinson, Fukuyama, Applebaum, Brennan, Przeworski, Runciman, Zakaria) vanno dicendo da tempo: le democrazie sono in crisi, e la crisi si sta manifestando con più forza in quella che è stata la prima delle democrazie moderne, quella americana. La speranza è che quest’ultima, anche grazie a quell’equilibrio tra i poteri che i founding fathers stabilirono nel 1789 e che per più di due secoli ha ispirato tanti paesi, riesca oggi a superare anche questa prova.

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