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Non dimentichiamo Kabul

11 Ottobre 2021 di Franco Chiarenza Lascia un commento

Non è un appello sentimentale per tenere viva l’attenzione nei confronti delle uniche vere vittime della tragedia afghana, le donne, gli uomini e i bambini che da un giorno all’altro sono rimasti ingabbiati in un sistema politico e sociale diverso da quello in cui, tra attentati e difficoltà di ogni genere, erano comunque vissuti negli ultimi vent’anni. Una doccia scozzese che dura peraltro da settant’anni. Quando ci andai negli anni ’70 a Kabul regnava ancora Zahir Shah; il paese si presentava come una confusa aggregazione di tribù pressoché indipendenti ma nelle città principali funzionava un primo abbozzo di stato moderno con scuole, mercati, servizi che progressivamente tendevano a trasformare anche l’Afghanistan in una nazione moderatamente laica (come erano in quegli anni le altre del Medio Oriente).

Pochi anni dopo un colpo di stato portò alla costituzione di una repubblica socialista ispirata e sostenuta dall’Unione Sovietica; durò vent’anni finché, incalzato dai guerriglieri armati e finanziati dagli Stati Uniti, anche il regime filo-comunista dovette rassegnarsi a soccombere senza essere riuscito a scalfire il potere medioevale delle diverse etnie locali. Al loro posto gli ‘studenti islamici’ – gli ormai famosi talebani – che tutto sono fuorché studenti nel senso che noi diamo alla parola, istituirono un regime fondamentalista religioso rimasto famoso per i suoi estremismi e il fanatismo dei governanti; i quali peraltro sarebbero stati lasciati in tranquilla pace (anche per la ridotta importanza geopolitica che ormai l’Afghanistan rivestiva) se non avessero commesso un errore gravissimo: ospitare e proteggere le basi del terrorismo islamico che minacciava la sicurezza del mondo occidentale.

Quando con gli attentati del 2001 e la distruzione delle torri gemelle di New York il terrorismo raggiunse il massimo livello sfidando a casa sua il paese simbolo del liberalismo occidentale, il governo americano reagì invadendo l’Afghanistan, eliminando i santuari terroristici e instaurando un sistema politico debolmente democratico; terzo tentativo di modernizzazione di un paese che ostinatamente, soprattutto fuori dalle maggiori città, sembrava rifiutare qualsiasi processo di cambiamento rispetto alle proprie tradizioni feudali. Puntualmente dopo vent’anni gli americani e i loro alleati (tra cui noi) hanno dovuto abbandonare Kabul al suo destino (né, malgrado le polemiche un po’ pretestuose, avrebbero potuto fare altro né in modo diverso, posto che un esercito e una classe dirigente coltivati per vent’anni si sono liquefatti in pochi giorni).

Il problema adesso è un altro: «non dimenticare Kabul» non significa non abbandonare a sé stessi quegli afghani che avevano creduto nella protezione degli occidentali, entro i limiti in cui ciò sarà possibile e sperando che comunque qualche seme abbia attecchito; e soprattutto confidando nelle pressioni che potranno esercitare quei regimi autoritari confinanti (come Russia, Cina, Iran) interessati per ragioni geo-politiche a una trasformazione moderata del regime talebano.

Significa invece non dimenticare la lezione che arriva a noi occidentali dal fallimento dell’ennesimo tentativo di trapiantare i nostri valori in paesi che li rifiutano per ragioni culturali e religiose che a noi sembrano incomprensibili e indifendibili, scordandoci che per alcuni aspetti esse sono assai simili a quelle che vigevano anche in Europa prima che i grandi scismi del cristianesimo e il razionalismo illuministico consentissero la nascita degli stati liberali moderni ispirati al principio laico della separazione tra Chiesa e Stato (e quindi tra fede religiosa e diritti individuali). Senza tali evoluzioni non si sarebbe mai sviluppata l’egemonia occidentale (la quale, oltre che militare ed economica, è stata soprattutto culturale) ma siamo ormai talmente abituati alla velocità dei processi di trasformazione che dimentichiamo come i cambiamenti culturali siano graduali e debbano esserlo se si vuole che siano duraturi.

La questione riguarda soprattutto i paesi musulmani per diverse ragioni: per una resistenza relativamente maggiore di una religione strutturata intorno a un libro sacro che è un vero e proprio codice di comportamento, per la storica contrapposizione con il cristianesimo nel bacino del Mediterraneo (che riguarda essenzialmente noi europei), per il possesso e il controllo delle principali fonti energetiche (soprattutto gas e petrolio) di cui il Medio Oriente e l’Africa settentrionale sono ricchi.

Non vorrei essere frainteso: non dico che il mondo occidentale deve rinunciare ai propri valori adottando una lettura deviante del relativismo culturale, sostengo, al contrario, proprio perché convinto della loro superiorità morale, che bisogna attendere pazientemente che essi maturino anche nei paesi di cultura islamica attraverso processi graduali come quelli che abbiamo attraversato noi. Certo, oggi ci sono strumenti che consentono accelerazioni fino a ieri non immaginabili, la globalizzazione contribuisce a ridurre gli spazi geopolitici e aumenta le contaminazioni culturali – soprattutto nei più giovani – e tutto ciò permetterà sviluppi più rapidi; internet sarà probabilmente ricordata in futuro per l’importanza che avrà rivestito in tale evoluzione, paragonabile a quella che la stampa ha avuto in Europa nel XVII secolo.

Ma per affondare le radici nelle coscienze e cambiare le tradizioni bisogna attendere passaggi generazionali ineludibili: le stesse diverse ‘chiese’ islamiche comprendono ormai quanto sia inevitabile fare i conti con una concezione non teocratica dello stato, pretendendo però di controllare i processi di cambiamento non soltanto per renderli compatibili con le prescrizioni coraniche ma anche, più prosaicamente, per mantenere un potere di controllo sociale che garantisce privilegi politici ed economici che altrimenti perderebbero (come è avvenuto nel mondo cristiano). L’esempio più evidente è dato dall’Iran modellato da Khomeini come uno stato ibrido al cui interno sono stati mantenuti alcuni limitati spazi dialettici, il che però non ha impedito a un clero onnipresente e invasivo di controllare tutte le articolazioni politiche e sociali di quel paese, bloccando ogni tentativo di liberare le migliori energie che emergevano spontaneamente nelle università e nella società civile dall’opprimente tutela dell’islamismo sciita (la più strutturata e potente tra le diverse confessioni musulmane).

Il quadro che ci proviene dal variegato mondo musulmano è quindi complesso e non si presta ad affrettate semplificazioni: prescindendo dall’Iran, si va dal confronto più diretto con le democrazie occidentali (mutuandone le prospettive politiche e culturali) come avviene nel Magreb (e soprattutto nel Marocco), passando attraverso regimi militari autoritari ostili al radicalismo islamico (Egitto, Giordania, Pakistan, ecc.), per finire in realtà ancora diverse come l’Indonesia (che contiene il maggior numero di musulmani pur mantenendo, almeno in linea di principio, un certo pluralismo religioso). Ho l’impressione, da diversi segnali, che per accelerare la transizione sarà decisiva la rivoluzione femminile che lentamente sta maturando anche nei paesi islamici. Lo sanno anche i talebani di ieri e di oggi e ciò spiega l’accanimento sulla subalternità femminile che li ossessiona.

Insomma, non tutto l’Islam somiglia ai talebani e sarebbe bene non fare di tutt’erbe un fascio. A Kabul l’Occidente ha perso una battaglia ma la guerra tra valori liberali e fondamentalismi di ogni colore continua: bisogna imparare ad attendere e nel frattempo aprire le porte, sollecitare il confronto, inchiodare gli estremisti alle loro contraddizioni, nella speranza che i nostri migliori alleati verranno dalle prossime generazioni musulmane.

kabul

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