La nostra attenzione è catturata oggi soprattutto dalla guerra e, tra tutte, da quella Russia/Ucraina, la cui crudeltà da parte dell’aggressore tocca livelli inauditi. Oltre a quella messa in atto con le azioni offensive, anche la comunicazione ufficiale russa è rivelativa di un livello di distruttività intollerabile. Qui, la menzogna più spudorata, gli insulti più grossolani, le calunnia e un disprezzo totale per l’avversario – categoria che si allarga sempre più – contribuiscono a produrre assuefazione all’elevatissimo tasso di conflittualità che la falsificazione continua della realtà a poco a poco genera parallelamente alla brutalità dell’azione bellica. In questa situazione, l’occidente sembra spesso impotente ad attivare una dialettica di smascheramento e contrasto di tale logica aberrante, quasi fosse privo di argomentazioni adeguate a farlo. D’altra parte, questa forma di prudente – o inconsapevole – afasia è drammaticamente implementata dalle comprensibili preoccupazione per le ricadute economiche della guerra e i problemi ambientali a quella connessi. Il senso crescente di insicurezza e imprevedibilità che discende da questa situazione si rispecchia così nelle trasformazioni di una comunicazione che si allontana sempre di più dal linguaggio della/sulla pace, travolta e condizionata com’è dalla violenza pervasiva della guerra e dalle plurime forme di ostilità. Le istanze pacifiste, che pure emergono da più parti, si presentano in forme estremamente semplificate, esigendo la cessazione dei conflitti ma trascurando la complessità delle situazioni concrete. La stessa carenza motivazionale si riscontra in quanto comunque permane di linguaggio cooperativo e solidaristico, che propone attenzione alle fragilità e alle vulnerabilità, politiche di solidarietà etc., senza che, tuttavia, di queste opzioni interpersonali e politiche si riescano a dare ragioni forti. Quanto si propone assume una forte coloritura morale che spesso si rivela ‘partigiana’: per lo più, infatti, tali attitudini vengono associate alla rivoluzione femminista o a un segmento politico-culturale giudicato più sensibile in questa direzione, o al mondo cattolico, che diventano così, automaticamente, i detentori di una superiorità o diversità morale. Lo stesso Habermas ha attribuito ai portatori di una fede religiosa speciali attitudini in questo senso. Mancano, invece, le ragioni fondative di tali comportamenti, in grado di attivare concetti e linguaggi orientati alla cooperazione e alla coesistenza, senza le quali sono destinati a infrangersi contro il continuo ribaltamento del reale operato dalla falsificazione come mezzo di azione politica e, spesso anche a segnare confini e diversità in rivalità reciproca. Le difficoltà che l’Occidente incontra nel riappropriarsi di tali ragioni nascono da lontano e certamente il paradigma filosofico politico del conflittualismo, a lungo dominante, ne è una delle origini. È opportuno ricordare, però, che tale paradigma si fonda, in larga, seppure certamente non esclusiva, misura, sulla lettura di una soggettività non solo autonoma, ma ben di più totalmente indipendente rispetto ad ogni contesto ordinativo-normativo e orientata principalmente dalla propria volontà, quando non dalle proprie pulsioni primarie. In questo contesto ciò che è stato offuscato nella sua forza significante è il linguaggio – e i concetti – della convivenza e della coesistenzialità, al più recepito nel suo aspetto parenetico o, come ricordavo più sopra, identitario. Al contrario, le due fondamentali linee che hanno interpretato l’individualismo nella declinazione pulsionale (Hobbes) e in quella solipsistica (Leibniz), hanno dimostrato una capacità di persuasione – falsificante ma potente – capace di fornire una convincente giustificazione che le ha rese capaci di orientare, a lungo e con forza, comportamenti e politiche. Per raggiungere un riassetto dell’asse del pensiero capace di opporsi culturalmente al bellicismo dominante in tutte le sue forme: di guerra guerreggiata, di capitalismo totalmente deregolamentato, di decostruzionismo senza alcuna visione dell’umano che non sia la sua continua trasformabilità, infine della sola logica di potenza, la via che va perseguita è quella non solo e non tanto della riproposizione delle parole della relazionalità: appunto solidarietà, cura, vulnerabilità, fragilità – attenzione a … –, quanto quella di un ripensamento all’apertura empatica come la modalità costitutivamente prima dell’essere, del conoscere e dell’attitudine a ri-conoscere e a essere riconosciuto del soggetto umano.
Una soggettività così considerata vive la dimensione della propria libertà e autonomia, ma sempre in un rapporto di reciprocità con, e riconoscimento dell’alterità. Di questo soggetto si tiene in considerazione, in primo luogo, non la pulsionalità autoreferenziale del soddisfacimento dei bisogni primari, ma, appunto, la capacità di misurarsi con l’esterno, rappresentato prima di tutto dal proprio stesso sé, e, di seguito, dell’altro, sia esso soggetto o oggetto. L’apertura relazionale costitutiva di per sé non garantisce comportamenti sim-patetici, o l’adozione di politiche permeate di cooperatività, ma, certamente, se viene riconosciuta nella sua priorità ontologica, fa apparire il conflittualismo come un’opzione contraddittoria rispetto a ciò che siamo e il solipsismo una forma di autonegazione.

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