Stiamo ormai uscendo dall’emergenza pandemia dovuta al COVID-19 e speriamo davvero, grazie a specifiche strategie di convivenza, di non dovervi rientrare. Speriamo anche che un vaccino venga trovato, sperimentato e diffuso velocemente, per tornare alla normalità. Nonostante la voglia di lasciarci alle spalle mesi che hanno interessato tutti, in maniera più o meno tragica, possiamo tentare un piccolo bilancio di ciò che quest’esperienza ha comportato e riflettere sull’insegnamento che da essa possiamo trarre. Mi limiterò a qualche piccolo spunto.
Anzitutto bisogna dire che, se nell’epoca pre-COVID assistevamo molto spesso alla lotta fra le opinioni di chi riteneva di avere il diritto di esprimersi su tutto, anche senza possederne le competenze, ora questa lotta si è estesa anche a chi, almeno in precedenza, credevamo ne fosse immune.
Mi riferisco ai cosiddetti ‘esperti’. Ci siamo ormai stancati delle loro comparsate televisive, della loro onnipresenza sui media e, soprattutto, delle loro incertezze mai esplicitamente dichiarate. Ecco perché abbiamo salutato con sollievo l’uscita di scena di alcuni di essi dal palcoscenico che era stato loro offerto.
Ma, al di là del modo in cui costoro hanno sfruttato l’occasione, un insegnamento lo possiamo trarre soprattutto da come altri studiosi si sono invece comportati. Le dichiarazioni di questi ultimi sono state infatti improntate alla prudenza e alla cautela. Abbiamo dunque imparato che le discipline scientifiche, per giungere a risultati ragionevolmente certi, hanno bisogno di dati spesso difficili da reperire, necessitano di lunghi periodi di verifiche e soprattutto non riescono a prevedere ogni eventualità. Abbiamo imparato, in una parola, che gli scienziati non sono in grado di garantirci quella liberazione dal male che molti, non ritenendo di poterla chiedere alle religioni, auspicavano che da loro potesse provenire.
D’altronde un aiuto in tal senso non lo abbiamo potuto ricevere neanche dalle discipline umanistiche. Parlo di quelle discipline che permettono di riflettere sulle situazioni, di valutare e criticare le tendenze della mentalità comune, di offrire una cornice narrativa capace d’inquadrare efficacemente i diversi scenari dell’esperienza. A ben vedere esse, nell’epoca del coronavirus, non ci sono state di grande aiuto. Non lo è stata in molti casi neppure la filosofia.
Abbiamo letto certamente contributi all’altezza del cambiamento categoriale che l’emergenza richiedeva, alcuni dei quali pubblicati proprio su questo forum. Ma quelli che hanno avuto maggiore risonanza sono stati gli interventi di studiosi che hanno colto l’occasione della pandemia per ribadire le loro vecchie convinzioni su come va il mondo, sul capitalismo globale, sulle società tecnocratiche, senza neppure fare lo sforzo di applicarle al contesto inedito che avevano davanti.
Anzi. Visto che la situazione finiva per smentire le loro tesi, hanno preferito negarne gli effetti: come il don Ferrante manzoniano nei confronti della peste. Ecco allora il secondo insegnamento che possiamo trarre: il pensiero non può risolversi nell’imposizione di teorie preconcette all’ambito del reale, non può imporre all’esperienza la propria astratta narrazione, ma con la realtà deve fare i conti davvero.
Un ultimo insegnamento relativo alla pandemia ci viene dal mondo della comunicazione. Abbiamo avuto in questo periodo un’occasione irripetibile per ripensare queste dinamiche e agire all’interno di esse in maniera diversa. Di fronte a un’emergenza che minacciava così pericolosamente la nostra salute eravamo tutti sottoposti alla prova della verità e avevamo davvero bisogno di un’informazione corretta al servizio di tutti. Ma ciò non sempre è accaduto.
Le fake news, ad esempio, non sono scomparse, ma dopo un momento di apparente eclissi sono ritornate in forme massicce. Da quest’occasione perduta possiamo dunque ricavare la convinzione che gli strumenti comunicativi, che ci offrono orientamento veicolando comportamenti e valori, sono in grado di guidarci a prescindere, anche quando ciò che trasmettono va contro l’esperienza quotidiana. Lo fanno sfruttando le nostre paure, le nostre speranze, le nostre debolezze.
È questo, in definitiva, ciò che c’insegnano i tre esempi a cui mi sono riferito. Rispetto alle nostre debolezze l’unico antidoto è l’abitudine. Chi garantisce di non metterla in questione, o di ripristinarla prontamente, ha il nostro ascolto. Forse per questo non vediamo l’ora di ricominciare a comportarci come se nulla fosse successo.
Gianfranco Pasquino dice
questo post affronta un argomento molto importante, ma lo fa senza andare a fondo. Chiederei precisazioni, sugli errori e gli erranti, quindi soprattutto nomi. A ciascuno la sua responsabilità.
Sebastiano Franco dice
L’autore (del post) è autorevole e non ha certo bisogno di difese d’ufficio. Però, a leggere questo perentorio “fuori i nomi”, viene da riflettere sulla differenza tra vaghezza ed eleganza, tra criticare il peccato e stigmatizzare il peccatore. Forse ce la ricordiamo tutti la “signora del Sacco” (copyright Burioni) che quest’inverno pontificava a reti unificate che stavamo esagerando di fronte ad un’influenza stagionale; bisognava proprio sillabare “professoressa Maria Rita Gismondo”? E senz’altro non c’è bisogno di andare lontano per indovinare quali “studiosi” abbiano fatto della pandemia un pretesto per riciclare teorie preconfezionate su “capitalismo globale” e “società tecnocratiche”: al maestro Giorgio Agamben ha dedicato un post anche Paradoxaforum…
Un conto è l’assunzione di responsabilità, un conto la polemica personalizzata.