Prendiamo la giusta distanza e partiamo dalla Bibbia. Già nel libro di Ester, ragazza ebrea che diventa moglie del sovrano persiano Assuero (siamo nel V secolo a.C.) e si adopera per salvare il suo popolo, si trova traccia della diversità ebraica. Ester dice di un popolo «sparso fra gli altri popoli» che non osserva le leggi del re, «tal che non è spediente al re di lasciarlo vivere».
Si descrive, dunque, una ‘libera’ diversità e la sua orgogliosa coscienza, una integralità dell’essere ebreo che antecede tutte le storie. E, insieme, i germi di una condizione di assedio. Dice Ugo Volli in Mai più. Usi e abusi del giorno della Memoria (Ed. Sonda, 2022): «Tutti combattono contro la separatezza ebraica della memoria e dell’identità, tutti hanno sempre richiamato questo popolo all’ ‘universalismo’, cioè all’accettazione del ricordo, dei valori e delle pratiche della maggioranza, al conformismo, a scambiare il suo aspro ‘egoismo’…».
Già: parrebbe un combattimento strenuo ingaggiato dal resto del mondo per omogeneizzare, per contrastare l’irriducibilità dell’ebraismo, che poggia certamente sul fondamento religioso ma che, tuttavia, partendo da questo si fa visione, stile di vita, weltanschauung. Diversa da quella degli ‘altri’ perché intrisa di eticità ebraica. La strenua conservazione dell’identità culturale ebraica è un elemento costitutivo di una condizione di vita: la ‘dispersione’ delle diaspore nel mondo degli altri non ha prodotto l’estinzione o l’attenuazione di una storia, con l’accettazione del modello maggioritario, ma, al contrario, ne ha sollecitato l’orgoglio. Si pensi alle tre religioni monoteiste che trovano nella città di Gerusalemme il loro ‘luogo’: parliamo di numerosità non commensurabili, perché a fronte dei 2,4 miliardi di Cristiani e all’1,9 di Islamici, i repertori che registrano la numerosità dei popoli dei fedeli attribuiscono alla religione ebraica solo 14 milioni. Eppure questa religione, questo formidabile propulsore della weltanschauung ebraica si sparge in tutto il mondo affondando spesso le sue radici nelle élite delle comunità ospitanti.
Ecco, allora, un altro elemento, quello della potenza di un piccolo popolo nei posti di comando finanziari, insieme con l’orgogliosa diversità, che forse può aiutare a capire il perché di una diffidenza ‘ideologica’ che parte da lontano, che s’intride di pregiudizi religiosi e politici, e talvolta può produrre le scorie velenose dei rigurgiti di antisemitismo che continuano a serpeggiare nei corpi sociali anche dei paesi democratici. E non ci riferiamo soltanto ai tristi rituali di insozzamento di intonaci con svastiche, distruzione di lapidi e di pietre d’inciampo e altre ignobili simbologie dell’armamentario antisemita di stampo nazifascista che non hanno mai cessato di accompagnare, con altalenante frequenza e virulenza, le nostre città. C’è qualcosa di più.
Perché lascia la bocca amara vedere sfilare per le strade di Parigi, Roma, Londra, New York, uomini e donne che manifestano solidarietà ad Hamas, beninteso Hamas come sineddoche sbagliata del popolo palestinese, lanciando invettive di morte contro gli israeliani.
Sicuramente l’insopportabile semplificazione della subcultura imperante dell’algoritmo, che ci costringe a guardare il mondo in chiave bidimensionale, spinge le nostre capacità cognitive verso uno schema bipolare che non concepisce più le complessità. Tuttavia è difficile accettare che, in una quotidianità che si nutre di immagini con enorme voracità, le testimonianze documentali delle atrocità compiute dai terroristi di Hamas contro le famiglie dei coloni israeliani sulla striscia di Gaza, non abbiano smosso le sensibilità di chi inneggiava a sostegno degli assalitori. È vero che sulla crisi della striscia di Gaza il giudizio viene alterato dalla diffusa cattiva opinione sul governo Netanyahu, sul suo integralismo antipalestinese e sul ruolo ambiguo assunto dall’intelligence israeliana nei giorni che hanno preceduto il 7 ottobre, perché è difficile pensare a una défaillance così clamorosa dei servizi segreti celebrati nel mondo per la loro efficienza. Sia ricordato per incidens: i sondaggisti italiani registrano un giudizio negativo di quasi la metà degli intervistati sulla condotta del governo israeliano, criticato per la «reazione troppo violenta» all’attacco del 7 ottobre. Ma occorre fare una distinzione tra il giudizio riferito al Governo Netanyahu e quello riferito agli israeliani, perché l’indistinzione tra il premier e il suo popolo, così come quella tra Hamas e i palestinesi della striscia di Gaza, ci precipita nel buco nero del pregiudizio xenofobo. Considerando, in ultimo, che Israele è uno Stato dotato di sovranità dal 1948. Sicuramente rappresenta il territorio in cui si concentra il numero più alto di persone ebree, ma non è l’ebraismo inteso nella sua complessità culturale e storica. E così profeticamente descritto nel libro di Ester.
Alessandro Cavalli dice
Argomentazione assai convincente e opportuna vista la confusione che c’è in molte teste di sinistra. Mi sembra anche che dovremmo capire di più come le varie forme che l’antisemitismo ha assunto nella storia abbiano contribuito al mantenimento/rafforzamento dell’identità ebraica e come gli ebrei abbiano funzionato da capro espiatorio nelle società dove l’antisemitismo è stato più virulento.