Alcuni slogan della campagna elettorale europea 2024 possono sintetizzarsi nell’antinomia «più Europa versus meno Europa», come contrapposizione – in Italia e in altri paesi – tra quasi tutti (socialisti, social-democratici, verdi, cattolici, centristi, liberali e moderati) e gli altri (euroscettici, nazionalisti, sovranisti e populisti di destra e sinistra). Questa contrapposizione nasce verosimilmente attorno alla crescita dei flussi migratori e la crisi dell’equilibrio politico internazionale dell’inizio del XXI secolo. Vorrei qui soffermarmi su due interrogativi. Quanto è davvero grande il fronte «meno Europa»? I due problemi sopra indicati possono essere risolti con «meno Europa»?
Per rispondere al primo interrogativo, limitandosi solo al caso italiano, riporto che la partecipazione alle elezioni europee è stata del 48,3%, sotto la media UE (50,97%). Sappiamo che Fratelli d’Italia (FdI) ha raccolto 6,55 milioni di voti (28,77%) e la Lega (L) 2,07 milioni (8,98%) e se queste due formazioni sono in Italia il traino del movimento «meno Europa» possiamo concludere a spanne che in Italia 8,621 milioni di elettori si sono espressi in tal senso. Andiamo avanti. Gli aventi diritto al voto in Italia, compresi gli italiani residenti all’estero (AIRE), sono 51,4 milioni, così nelle ultime elezioni europee complessivamente hanno votato 24,826 milioni di italiani tra gli aventi diritto (appunto, il 48,3%).
Prima conclusione: 8,621 milioni di voti anti-europei (FdI + L), rispetto ad una platea di 51,4 milioni, costituiscono il 16,77% degli aventi diritto. E il restante 83,23%? Tenuto conto solo dei circa 25 milioni che hanno votato, in Italia circolerebbero comunque altri 16,205 milioni di elettori (il 62,25%) non attribuibili ora al campo «meno Europa». Non so se questi ragionamenti siano estendibili ad altri paesi, in particolare a Francia e Germania, ma l’epicedio intonato in questi giorni contro l’UE da molti commentatori forse è prematuro. Bisognerebbe davvero capire cose bolle in testa ai 26,6 milioni di italiani che non sono andati a votare, molti sono giovani, accertarsi delle loro attitudini pro o contro l’Europa, per riportare speranza nel campo «più Europa» i partiti al suo interno dovrebbero impegnarsi a smuovere quelle masse, ma resta l’impressione che il fronte «meno Europa» non sia poi così invincibile e destinato a governare il nostro futuro in eterno.
Si potrebbe però obiettare – secondo aspetto – che flussi migratori ingestibili e crisi internazionale agiscono come un potente ‘scollante’ dell’UE. Anche qui, cominciamo con alcuni numeri e proviamo a riflettere se esista una contrapposizione tra gli Stati-Nazioni (SN) e gli Stati-Continente (SC) e se i primi possano essere più efficaci dei secondi a fronteggiare le due crisi. Proviamo a immaginare una rudimentale classificazione di SN e SC basata su tre criteri generalmente impiegati nelle scienze sociali: popolazione; estensione; produzione. Occorrerà, inoltre, stabilire delle soglie per definire le classi: 150 milioni per popolazione (tre circa volte l’Italia); 3 milioni di Kmq per estensione (10 volte circa l’Italia); 1,5 migliaia di milioni di dollari in Pil per la produzione (poco sotto quello dell’Italia, che è pari a 2,1 migliaia di milioni di dollari). Evito di farvi scoppiare il cervello riportando numeri, però se voi incrociaste questi criteri arrivereste a responsi allarmanti – forse scontati: tutte c.d. Grandi Potenze europee, cioè Regno Unito, Francia, Germania e – si minor non cessat – Italia sono minuscoli SN che non reggono il confronto con gli SC. Ci sarebbero nel globo solo cinque SC: USA (popolazione: 341 milioni; estensione: 9 Kmq; Pil: 25,3 migliaia di milioni di dollari); Cina (1425 – 9 – 17,4); India (1436 – 3 – 3,1); Russia (144 – 17 – 1,7); Brasile (217 – 8 – 1,6). Gli SN europei sono spazzati via da questo confronto (ad es. l’Italia ‘misura’ appena 58 – 0,3 – 2,1; la Francia 68,4 – 0,68 – 2,9) e riuscirebbero a tener botto solo se pesati in aggregato, cioè come UE (448 – 4 – 18,4).
Bene, si dirà: «Ma a noi nun ce frega niente!». Sì invece, perché resto convinto che i due problemi del secolo XXI (immigrazione e crisi internazionale) gli SN non potranno mai affrontarli e risolverli ciascuno per sé. Partiamo dalla crisi internazionale dove è più facile capire perché. Gli SN – si vedano i numeri sopra – non hanno le dimensioni per estrarre in continuità le risorse economiche-militari necessarie per il confronto. I deboli di spirito e i ‘buoni democratici’ non leggano il proseguo di questo paragrafo – passino oltre: ebbene, uno SN come l’Ucraina (36,7 – 0,60 – 0,21) non ha alcuna possibilità di spuntarla contro uno SC come la Russia (144 – 17 – 1,7) e soltanto l’irrealismo sconsiderato della sua leadership (eccitato dalla ‘buona novella’ democratica) e gli aiuti occidentali riescono ancora ad alimentare un conflitto che causa solo morte e distruzione. I proclami dei tanti leader degli SN europei di certo non serviranno a vincere quella guerra, uno SC delle dimensioni dell’UE – se esistesse – potrebbe invece farcela.
Venendo alla seconda crisi epocale (i flussi migratori incontrollati) sostengo, per paradosso, che l’UE può superare anche queste recenti crisi nonostante non abbia un centro politico. Vi sono due ragioni che mi spingono a questo velato ottimismo. In primo luogo, la dimensione di questi flussi non corrisponde alla loro percezione sociale, che è forse esagerata e distorta. Secondo l’UNICEF sarebbero 2,5 milioni i rifugiati e migranti giunti in Europa dal 2015; 67.090 (16.034 dei quali bambini sotto i 18 anni) sono arrivati dal mediterraneo nel 2024. Secondo l’Eurostat, in EU vivrebbero 27,3 milioni di extra-comunitari (6,1% della popolazione UE complessiva), questi flussi sono cresciuti negli ultimi anni, attestandosi a 2,7 milioni nel 2021 e 5,1 milioni nel 2022. Se questi numeri fossero proiettati sulle dimensioni di uno qualsiasi degli SN europei potrebbero effettivamente rivelarsi destabilizzanti, ma su uno SC della scala dell’UE (ribadisco: 448 – 4 – 18,4) sono risibili o comunque potenzialmente gestibili. Inoltre, in condizioni normali di sviluppo, gli SC rispetto agli SN sono un melting pot per definizione, tendono a integrare e ‘confondere’ le etnie perché difficilmente sanno produrre ideologie nazionalizzatrici escludenti, insomma un processo di «nazionalizzazione delle masse» – come lo chiamava G.L. Mosse – è stato possibile per gli stati europei ottocenteschi e del primo Novecento, mentre risulterebbe molto meno percorribile oggi nel XXI secolo. Il processo d’integrazione negli SC raramente avviene attraverso la ‘nazionalizzazione’ e questo è un fattore che potenzialmente avvantaggerebbe l’UE rispetto agli SN nel fronteggiare la crisi migratoria e l’emergere di linee di frattura di carattere etnico-nazionali.
In secondo luogo, l’immigrazione costante verso l’Europa pone una moltitudine di problemi di coordinamento tra le politiche degli SN che a questi conviene invece demandare ai meccanismi dell’UE, mentre i giganteschi costi di transazione generati da una svolta neo-mercantile dei sistemi economici nazionali spaventano tutti, come ha mostrato il caso della Brexit e la recessione indotta nel Regno Unito. Tutto l’armamentario delle politiche migratorie dell’UE messo a punto dal 2000 in avanti (FER, AMIF, CEAS, EASO, EUUA, FRONTEX: sigle astruse che cito a bella posta – certo – ma di fatto strumenti operativi concreti per fronteggiare i flussi migratori) potrà sembrare insufficiente, ma resta forse il principale esempio in scala planetaria di una gestione civile di un fenomeno sempre esistito e difficilmente eliminabile. Restore hope – se vi pare, naturalmente – l’UE non è finita, serve anche agli euroscettici e ai sovranisti, magari ora solo per far propaganda e gabbare gli ingenui, in realtà perché altrimenti i loro minuscoli SN sarebbero travolti o ridotti all’irrilevanza.
Fulvio Attinà dice
La dimensione degli stati conta e quindi l’Europa federale conviene. Le mezze misure che piaciono ai sovranisti per salvare la faccia mezze soluzioni danno. La dimensione, però, non è tutto quando i problemi sono di raggio mondiale e non risolvibili individualmente neanche dagli stati grandi. Come regolare il commercio internazionale, su quale moneta o quali monete basare investimenti e scambi, come assicurare stabilità territoriale agli stati, come riparare i guasti del cambiamento climatico, come dare ai paesi sottosviluppati le condizioni per frenare l’emigrazione, come proteggersi dalle pandemie: sono tutti problemi che colpiscono gli stati grandi, medi e piccoli. La dimensione mondiale di alcuni problemi è stata riconosciuta all’inizio del secolo scorso, ma solo a metà Novecento dopo due guerre mondiali, le conferenze di Bretton-Woods, San Francisco e Ginevra hanno dato risposte adeguate ai tempi e agli stati che le hanno organizzate e concluse con trattati che hanno creato istituzioni di policymaking e politiche-quadro mondiali che tutti gli stati dovevano attuare. Dopo circa vent’anni, ci si è accorti che non conveniva a tutti gli stati attuarle. Le istituzioni di policymaking FMI, NU, GATT/WTO) hanno continuato a funzionare ma con efficacia decrescente. Ora si tratta di convocare nuove conferenze sui problemi mondiali ma ci vuole tempo per mettersi d’accordo. Qualcuno o più d’uno, fra l’altro, può preferire giocare a braccio di ferro e fare le conferenze solo dopo aver messo a terra gli avversari, come è già accaduto.