Da un paio d’anni a questa parte mi è capitato più volte di scrivere sul politicamente corretto e su quella che considero una sua diretta conseguenza: la cosiddetta cancel culture. Non era ovviamente necessario che il politicamente corretto degenerasse nella cultura della cancellazione, ma di sicuro, almeno secondo me, ne conteneva alcune premesse. Così, quando sono arrivati i social, quella che sembrava soltanto una richiesta di aggiustamento linguistico, per alcuni aspetti persino condivisibile, si è trasformata in hate speech e in una vera e propria guerra culturale. Ma andiamo per ordine.
Il politicamente corretto di cui parliamo nasce verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, allorché la sinistra americana incomincia a distogliere lo sguardo dalle classi sociali più svantaggiate per concentrarsi sempre di più sui diritti civili e la tutela degli interessi di un’ampia varietà di gruppi percepiti come marginalizzati: le donne, i neri, gli immigrati, la comunità Lgbt e simili. Siccome il linguaggio è una specie di deposito privilegiato dei modi di pensare e di sentire dei singoli e delle comunità, è proprio sul linguaggio che inizia una vera e propria battaglia, nel tentativo di bandire parole che potessero in qualche modo evocare una qualsiasi forma di discriminazione. In quegli anni da noi si ironizzava soprattutto sul fatto che lo spazzino si dovesse chiamare operatore ecologico, la donna delle pulizie collaboratrice domestica, il portatore di handicap diversamente abile e cose simili, ma c’era effettivamente poco da ironizzare sul fatto che finalmente diventava disdicevole apostrofare le donne, i neri o gli omosessuali nei modi volgari coi quali erano stati apostrofati per secoli. Bisogna quindi riconoscere che per molti versi il politicamente corretto rimarcava un’istanza di rispetto che certamente ha contribuito non poco a rendere più civile e inclusiva la nostra convivenza.
Purtroppo però, specialmente con l’arrivo dei social, quest’istanza andrà ben oltre l’attenzione all’uso delle parole e alle molestie verbali, radicalizzandosi in forme sempre più illiberali di pratiche identitarie, osteggiate con sarcasmo da destra, che però finiranno per destare non poche preoccupazioni anche a sinistra, assumendo una veste sempre più aggressiva e pericolosa: la cosiddetta cancel culture, diffusa ormai non soltanto a sinistra e non soltanto in America. Statue, quadri, opere letterarie vengono rimossi o messi all’indice; eminenti uomini politici, filosofi, scrittori, artisti o imprenditori filantropi del passato vengono giudicati secondo un criterio che non si cura minimamente del contesto storico in cui essi sono vissuti, ma si basa soltanto sulla sensibilità morale e culturale di coloro che giudicano.
Come ho scritto in un articolo pubblicato lo scorso anno in un fascicolo della rivista Paradoxa meritoriamente dedicato alla cancel culture (https://www.novaspes.org/rivista-paradoxa/numeri/paradoxa-anno-xvi-numero-2-aprile-luglio-2022/), potremmo dire che siamo di fronte all’espressione di una volontà che non riconosce altro limite che se stessa. Basta che qualcuno si senta offeso per qualcosa e si scatena il putiferio. E quel che è peggio è che questa suscettibilità, questo volontarismo vacuo hanno contagiato ormai gran parte della cultura politica americana, diffondendosi anche in Europa. La denigrazione dell’avversario politico è diventata ormai la regola in tutti i paesi occidentali; ognuno si rinchiude nella sua echo chamber, dalla quale vengono lanciati improperi d’ogni tipo a chi la pensa diversamente; basta un tweet e la reputazione di chicchessia può essere rovinata per sempre. A tutti i livelli si assiste a un preoccupante imbarbarimento del dibattito pubblico. Ovvio che per questa strada è alto il rischio che, non soltanto la cultura, ma anche le istituzioni delle nostre liberaldemocrazie vadano a farsi benedire.
Ritornando a quanto dicevo all’inizio, non vedo nulla di male nella denuncia politicamente corretta delle discriminazioni di cui nel passato sono rimasti vittime certi gruppi sociali. Al contrario. Dal mio punto di vista, merita attenzione persino il cosiddetto ‘1619 Project’, un’iniziativa coordinata da Nikole Hannah-Jones, lanciata nell’agosto del 2019 dal «New York Time Magazine», con lo scopo addirittura di riscrivere la storia degli Stati Uniti guardando non tanto al 1776, l’anno della Dichiarazione di Indipendenza, quanto piuttosto al 1619, quando sulle coste della Virginia approda la prima nave carica di schiavi. Non condivido quasi nulla di ciò che viene prodotto all’interno di questo progetto, tuttavia non possiamo certo liquidare lo schiavismo come un fatto marginale della storia americana.
Bene fanno dunque coloro che invitano a rifletterci. Oltretutto, come diceva Walter Benjamin, è sempre opportuno fare il contropelo alla storia, mostrandone il lato oscuro, le ambiguità e le tragedie che spesso si nascondono dietro i suoi monumenti. Ma il fatto è che la cancel culture non si cura affatto delle ambivalenze della storia; si esprime preferibilmente in modo vandalico nei confronti del passato, come se esso potesse essere restituito a una e una sola dimensione. Una chiusura fanatica e manichea, utile a eccitare gli animi di coloro che sono ‘dentro’ ma assai lontana dalla realtà, dalla verità e dall’universalismo che contraddistinguono la cultura occidentale.
Dino Cofrancesco dice
Condivido toto corde! Meglio non si poteva dire. Il fatto è che la cancellazione dello storicismo–confuso con la ‘filosofia della storia’–ha comportato non solo la fine del liberalismo (il liberalismo nacque, da M.me de Stael a Vincenzo Cuoco, come riflessione sugli errori e sui delitti commessi in nome della Raison) ma anche il tramonto dell’Occidente che nel pluralismo etico e teoretico trovava la sua natura più profonda.