Si è concluso nei giorni scorsi a Pechino il XX Congresso del Partito Comunista Cinese. Nella prossima primavera, con l’elezione della nuova Assemblea Nazionale del Popolo, si avrà formalmente il rinnovo di tutte le principali strutture di governo del paese: oltre all’Assemblea e ai suoi organi, si procederà ad eleggere il Presidente della Repubblica ed il suo Vice, il Presidente del Consiglio di Stato (il Governo) e i ministri, il Presidente della Commissione Militare Centrale, la Commissione di Supervisione (potente organismo anticorruzione) e così via. E si riunirà contestualmente l’altra importante istituzione rappresentativa, la Conferenza Politico Consultiva del Popolo Cinese, considerata il più rilevante organo di raccordo con la società civile. Il sistema di potere avrà quindi trovato il suo definitivo, sia pur temporaneo, assetto.
L’indirizzo del cambiamento è stato dato dalla relazione resa al Congresso del Partito da Xi Jinping, confermato per la terza volta, dopo il 2012 e il 2017, Segretario Generale del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese.
Più che soffermarci sul dato, certamente non irrilevante, di questa inusuale conferma (inusuale, ma non senza precedenti, come nel caso di Jiang Zemin, Segretario del Partito dal 1989 al 2002) preferiamo accennare brevemente all’indirizzo politico che emerge dalla relazione del confermato Segretario Generale.
La prima osservazione è relativa al carattere fortemente ideologico della relazione stessa. Mentre nelle passate occasioni il punto forse più rilevante erano le prospettive economiche, qui appare centrale la ribadita conferma del ruolo del Partito e della sua ideologia. Sia in campo economico, sottolineando l’importanza decisiva dello Stato nel dirigere e controllare l’economia e garantire la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, alimentari e tecnologici; sia in quello, per noi più rilevante, della politica estera per affrontare una situazione internazionale definita nella relazione «carica di pericoli». Mentre negli anni passati venivano ripetutamente sottolineati i concetti di «pace e sviluppo», oggi si insiste sulla necessità di affrontare una situazione esterna «severa e complessa»; si invita il Partito a prepararsi alle difficoltà, presenti anche in un momento di pace; si richiama la necessità per l’esercito ad organizzarsi per essere pronto «a vincere». La stessa terminologia utilizzata nella relazione è indicativa: sono frequenti parole come sicurezza, lotta, combattimento, esercito, incertezza, fattori imprevedibili. Si utilizzano termini, assai meno frequenti nelle precedenti relazioni, che esprimono una visione pessimistica, e preoccupante, del quadro internazionale.
E questi indirizzi fortemente assertivi influenzeranno negli anni prossimi i rapporti tra gli stati, in un quadro già di per sé assai complesso.
In vista del Congresso gli analisti hanno sottolineato le difficoltà che la Cina sta affrontando e dovrà affrontare nei mesi prossimi: con una crescita economica in declino rispetto alle previsioni degli anni passati, a causa delle conseguenze di un rigoroso lockdown, del pugno di ferro usato verso le società tecnologiche, delle fortissime difficoltà del mercato immobiliare, della ripresa del controllo del partito sulle aziende private e pubbliche, del riposizionamento di tante imprese straniere che avevano dato in Cina un contributo essenziale allo sviluppo. In buona sostanza per il fallimento di quel ‘doppio sistema’ che avrebbe voluto vedere uno sviluppo importante del mercato interno accanto a quello fondato sulle esportazioni. Ma ancora difficoltà per i risvolti non solo economici ma anche sociali della ricordata gestione ‘zero’ del COVID 19; per una politica estera fortemente aggressiva che ha provocato l’isolamento internazionale, a cominciare dai vicini asiatici, e che sta determinando tra le tante cose il fallimento dell’iniziativa «Belt and Road»; per l’inasprirsi della crisi con Taiwan, in un crescendo che rischia di diventare incontrollabile e che costituisce oggi, dopo la disastrosa invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la preoccupazione maggiore in campo internazionale.
A tutto ciò il Congresso non ha dato una risposta strategicamente nuova, anzi la relazione di Xi Jinping sembra ribadire la strada fino ad ora seguita di un confronto interno ed esterno senza compromessi.
E veniamo alla nuova struttura del potere, ai nuovi vertici: anche qui un rafforzamento della linea di rigore ideologico seguita negli ultimi anni. A cominciare dalla rimozione di quattro dei sette precedenti membri del Comitato Permanente dell’Ufficio Politico del Partito che, specialmente con il premier Li Keqiang, rappresentavano una linea moderata rispetto a Xi. E dall’indicazione come numero 2 di Li Qiang, capo del Partito di Shanghai, premiato non certo per la disastrosa gestione del lockdown in quella città, ma per la sua fedeltà assoluta a Xi.
Due considerazioni finali. In primo luogo il Congresso sanziona il definitivo abbandono della leadership collegiale voluta da Deng Xiaoping, alla quale si deve a giudizio di molti non solo lo sviluppo economico e sociale del paese negli ultimi decenni, in un delicato equilibrio tra imprese private e pubbliche, ma anche un processo di successione nelle cariche politiche ragionevolmente prevedibile ed ordinato. Xi non è stato per ora nominato, come Mao, Presidente del Partito: anche se nei ripetuti riferimenti alla sua «teoria» lo si pone sullo stesso piano, anche dottrinale, del «Grande Timoniere», accentuando il processo di concentrazione autoritaria del potere rispetto a quello di una gestione condivisa.
Ma va anche ricordata la mancanza, come invece accaduto nei congressi del dopo Mao, non solo di una indicazione ma anche di una semplice previsione sulla successione a Xi Jinping. Una mancanza che non renderà certo più agevole il cambio ai vertici del potere quando, tra qualche anno, il problema si porrà nella sua immediata, forse drammatica, concretezza.
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