Quale modello di giustizia è venuto prevalendo nel nostro Paese? Per rispondere ho chiamato in causa John Rawls, chiedendomi in che modo, varcando le nostre frontiere, un personaggio condizionato dal velo di ignoranza avrebbe potuto percepire la situazione italiana. Giunto da noi, poiché interessato alle istituzioni, volse il suo sguardo alle nostre prassi politiche. In particolare agli atti di governo. Si sarebbe aspettato di trovarsi di fronte a uno Stato sovrano analogo al suo Paese. Quale non fu il suo sconcerto nel vedere che gli atti di indirizzo politico, gli atti di un ministro nell’esercizio delle sue prerogative, in molti casi fossero sottoposti al sindacato giurisdizionale ordinario, quasi fossero delibere di un comune o di una regione! Così, pensò che l’Italia non fosse propriamente uno stato sovrano; fosse piuttosto una semplice regione o comunque un ente ‘locale’.
Per converso, si accorse che talvolta la carcerazione preventiva finiva per assumere la funzione di mezzo per raggiungere la prova e non l’opposto; che talvolta mediante forzature interpretative l’insindacabilità dei rappresentanti del popolo veniva in qualche modo aggirata. Di fronte a tutto ciò rimase perplesso e cominciò a pensare che a causa della confusione prodotta dal conflitto politico, lo Stato sovrano di quel Paese fosse deperito in tal modo da rendere prevalente su di esso lo Stato amministrativo!
Quali le cause di una tale anomala trasformazione? Il nostro personaggio comprese che sia il sistema politico che quello giudiziario erano stati pensati come retti da due autonome forme di giurisdizione domestica, quella del Parlamento e quella del Consiglio superiore della magistratura. Intese che in questo modo i costituenti volessero garantire i due poteri sia da possibili invasioni operate da poteri esterni, sia in particolare da quelle dell’uno nei confronti dell’altro. Si era adottato, vale a dire, un sistema di immunità diretto a garantire l’indipendenza dei due organi, un sistema fondato sull’equilibrio.
Prese coscienza, però, anche del fatto che a partire dalla abolizione della primitiva forma di autorizzazione a procedere, tale equilibrio era stato compromesso a favore di quello del potere giudiziario; il sindacato giurisdizionale finiva per andare al di là dei suoi confini, fino a trasformare in un certo grado la natura stessa dello Stato mediante un affievolimento del suo elemento sovrano.
Di qui la trasformazione dell’atto di indirizzo politico in un mero atto amministrativo. Il ruolo del giudice finiva per risolversi nel costante tentativo di far prevalere il magistrato sul rappresentante del popolo. La difesa ad oltranza del proprio ordine contro quello politico, agli occhi del nostro osservatore, finiva per trasformare il ‘giudice autonomo’ ora nel giudice difensore della propria categoria, ovvero nel giudice burocratico, ora nel giudice direttamente anti-politico e perciò immediatamente politico. Di modo che, non si meravigliò affatto che, alla fine, si fosse caduti in un singolare paradosso. L’aver svincolato mediante la giurisdizione domestica la magistratura dall’influenza del potere politico (effettuabile per il tramite di possibili prerogative del Ministro della giustizia), si veniva a risolvere in due diverse forme di politicizzazione intrecciate fra loro: quella direttamente ideologica nella figura del magistrato militante e quella relativa alla distribuzione del potere burocratico così ben illustrata dalle recenti vicende italiane.
In altri termini, il nostro eroe finì per ritenere che il grande errore fu nel combattere quell’istituto di garanzia che è l’autorizzazione a procedere, e nel non pretendere che il Parlamento stesso, sul modello di altre nazioni europee, la riformulasse rigorosamente, operando velocemente per una riforma efficace della sua giurisdizione domestica. Finì per ritenere che la burocratizzazione corporativa dell’organo di governo della magistratura fu un effetto perverso di una certa qual prevalenza del momento giudiziario su quello politico, ritenendo che l’autentica giurisdizione domestica fosse solo quella dell’organo a tutela della autonomia dei magistrati.
Ma per quale ragione lo svolgersi dei rapporti politici intesi nel senso più ampio aveva condotto a equilibri spesso precari e apparentemente impropri? Come mai lo spettro della lotta fra fazioni politiche continuava, in Italia, a riemergere con la forza di un vento potente, alterando i rapporti istituzionali?
Si rese conto che la politica nazionale del Paese si svolgeva in un costante contrasto con sé stessa. Voleva essere tale, ma aveva smarrito ogni riferimento alla nazione, finendo per non comprendere più che un equilibrio istituzionale fondato sulla giustizia è possibile solo se radicato sull’orientamento delle ‘piccole patrie’ verso l’interesse nazionale e che un vero spirito nazionale, non nazionalista, a sua volta è la linfa vitale che consente di lasciare liberi i popoli di proporre ipotesi di autentica universalità.
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