Le retoriche ideologiche del nostro tempo possono assumere due forme, la menzogna o l’omissione. La seconda è più efficace della prima, giacché un discorso che parte da principi giusti e condivisi da tutti si fa perdonare se l’altra faccia della Luna rimane coperta. Queste considerazioni mi sono venute in mente leggendo l’articolo, apparso sul «Dubbio» del 16 luglio, Gogna per chi assolve: giudici sotto attacco di politica e media di Valentina Stella. L’incipit è un abstract della tesi che vi si sostiene: «Cosa hanno in comune i casi giudiziari Cerciello Rega, Ciontoli, Viareggio, Mottola, Rigopiano, Delmastro, Artem Uss, Toti? Che se un giudice si azzarda a derubricare, prescrivere, assolvere, concedere misure alternative al carcere o emettere una sentenza sgradita alla maggioranza parlamentare contro di lui si scatenano critiche asprissime da parte di politici, scattano azioni disciplinari, il Tribunale del popolo chiede la ghigliottina». È un malcostume, si fa rilevare, che rappresenta una minaccia per la separazione dei poteri e prefigura una giustizia di governo. Lo dimostrerebbe, tra i vari tentativi di mettere il bavaglio ai giudici, l’interrogazione al Ministro della Giustizia del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, intesa ad ottenere un’ispezione sulla Corte di Assise di Appello di Roma per gli arresti domiciliari concessi a Natale Hjorth implicato nell’omicidio del carabiniere Cerciello Rega. Forse Valentina Stella ha dimenticato che siamo un paese in cui la magistratura viene accusata costantemente di volersi trasformare da ordine in potere dello Stato, con sentenze spesso ad orologeria e imputazioni altrettanto spesso prive di fondamento (che però segnano la fine delle carriere e dell’onorabilità dei politici incriminati). Dovremmo ritornare ai tempi di ‘Mani Pulite’ quando i sospetti di un magistrato su un parlamentare o su un ministro erano sempre la dimostrazione di una colpevolezza?
«Nel 2023 la Corte di Assise di Cassino, ricorda la giornalista, ha assolto la famiglia Mottola per l’omicidio di Serena Mollicone. Gli imputati e i loro avvocati dovettero essere scortati fuori dall’aula dalla polizia perché centinaia di persone si gettarono addosso per aggredirli fisicamente». Lo ricordo anch’io, giacché essendo nato nello stesso paese della povera ragazza assassinata, quella sentenza mi sconvolse profondamente, come mi ha sconvolto la nuova inaspettata assoluzione romana. Però l’articolista ha ragione, la civiltà del diritto insegna che «mille indizi non fanno una prova» e che, in mancanza di prove certe, un magistrato preferisce che un delinquente (presunto) rimanga a piede libero piuttosto che un innocente finisca nelle carceri italiane – che non si distinguono certo in fatto di tutela della dignità dei detenuti.
E tuttavia, questa è una faccia della Luna; l’altra non riguarda i tribunali – che non debbono fare Giustizia o risanare il paese, ma solo applicare la legge al caso concreto – bensì l’etica sociale ovvero la libertà – il diritto morale – di una comunità a pronunciare ‘sentenze’, che si convertono nel ritiro della stima e nell’isolamento delle persone poco raccomandabili.
È un diritto che ormai non viene più riconosciuto giacché la demonizzazione di tutto ciò che sa di ‘comunità’, di interessamento a quel che fanno i nostri vicini, di difesa dei costumi e della preoccupazione per i valori che tengono insieme un gruppo sociale, incorre nell’anatema del liberalismo individualista e dell’universalismo progressista che domina la nostra civic culture, per chiamarla così. (Ne beneficiò ai suoi bei dì, il Cavaliere al quale si perdonava uno stile di vita discutibile però non perseguibile penalmente.)
«Mille indizi non fanno una prova»: è giustissimo, ma mille indizi portano allo scoperto ambienti equivoci, genitori affetti da familismo amorale, giovani viziati e drogati sicuri dell’impunità per le cariche ricoperte dai padri. Chi ha seguito certe vicende criminali non ha dubbi al riguardo: ci si trova in presenza di autentici farabutti che, sempre in mancanza di prove certe, non possono venire condannati.
A sgomentare, nella società di oggi, è il fatto che, per molti commentatori politici ed opinion makers, se uno è assolto dal reato di cui lo si è incolpato ha il diritto di venire considerato un galantuomo, come se la verità processuale fosse l’unica che conta e le considerazioni morali sulla condotte dei nostri simili dovessero riguardare solo il confessore (figura, peraltro, ormai in via di estinzione con lo svuotamento delle chiese).
L’argomento principe degli antigiustizialisti è che le sentenze dell’opinione pubblica possono errare e mettere alla gogna persone che non lo meritano – la storia è piena di pregiudizi che hanno rovinato la vita delle persone. Ma forse questo non è ancora più vero per le sentenze emesse dai tribunali? Chi risarcirà la famiglia Tortora dell’errore giudiziario commesso dai magistrati che lo hanno esibito in tv con le manette ai polsi?
Forse è il caso di ricordare che in America la democrazia è nata nelle chiese, dove i capifamiglia, lettori devoti della Bibbia, si riunivano per deliberare sulle decisioni collettive e per vegliare sulla condotta di figli, mogli, mariti. Per fortuna, nel volger degli anni, la morale si è separata dalla politica e questa ha prodotto un diritto, per così dire, circoscritto alle ‘azioni esterne’. Tale separazione, però, non ha cancellato lo spazio della morale, tant’è che fino a poco tempo fa, gli Stati Uniti venivano accusati di essere un paese troppo puritano. Nella Democrazia in America (1935) Tocqueville scriveva che in America «il regno della libertà» sarebbe impensabile «senza quello dei buoni costumi» e che non si possono avere «buoni costumi senza la fede».
Rispettare le sentenze è un dovere per chi vive in una democrazia liberale e l’aggressione ai danni di un imputato, implicato in un assassinio e poi assolto, va punita severamente: ma, ribadito il concetto, dovremmo essere vicini felici di vivere accanto a una famiglia, dopo tutto quello che le cronache hanno rivelato sul suo conto e che, certamente, non basta per sbatterla nelle patrie galere?
Un tempo, a ispirare la condotta buona era la religione, poi venne il patriottismo («sii degno dell’Italia!», era la morale del Cuore di Edmondo De Amicis). Quando quei simboli antichi e venerati perdono prestigio, persona perbene diventa chi non ha infranto la legge e se accusato di averlo fatto, viene scagionato da una sentenza. È l’atomizzazione sociale temuta non solo, a destra, dai tradizionalisti e, a sinistra, dai socialisti, ma, altresì, da quanti si ispiravano nel ‘mondo di ieri’ al ‘liberalismo comunitario’, per riprendere il titolo di un mio recente saggio pubblicato da «La Vela».
Michele Magno dice
Considerazioni ineccepibili, prof. Cofrancesco. Sono sicuro che converrà con me, tuttavia, che la gogna pubblica comincia non dalla condanna seguita da una eventuale assoluzione, ma perfino dall’iscrizione nel registro degli indagati. È sufficiente quest’ultima a rovinare la reputazione (e spesso anche la vita) delle persone. E , diciamoci la verità, ci sono molti magistrati di manica assai larga nel rinvio a giudizio. E poi, se mi consente un piccolo salto nel mio discorso, il caso Toti (personaggio peraltro che non mi affascina) non fa strame dello Stato di diritto in questo povero paese? Chiedo venia per il mio piccolo sfogo. Con stima e simpatia, Michele Magno